Audizione nell’ambito della ‘‘Indagine conoscitiva sulle tematiche relative agli strumenti finanziari derivati’’ (Camera dei Deputati)
di Emilio Barucci

Set 29 2015
Audizione nell’ambito della ‘‘Indagine conoscitiva sulle tematiche relative agli strumenti finanziari derivati’’ (Camera dei Deputati) <small><small><I> di Emilio Barucci </I></small></small>

Grazie, presidente, dell’invito a partecipare ai lavori di questa Commissione per questa indagine conoscitiva. Ho già distribuito il testo della mia relazione. Vi farò ampiamente riferimento e cercherò di portare qualche considerazione attorno a due temi: in primo luogo, la lezione che possiamo apprendere dalla crisi finanziaria sui derivati e i rimedi proposti e, in secondo luogo, l’utilizzo dei derivati da parte del settore pubblico.

La mia traccia verte su quattro ambiti. In primo luogo, svolgo una breve premessa sui motivi dell’utilizzo degli strumenti derivati in finanza. In secondo luogo, vorrei cercare di spiegare il ruolo che i derivati hanno avuto all’interno della crisi finanziaria e i rimedi proposti. Infine, mi concentrerò sui derivati nella pubblica amministrazione, sulle evidenze che sono sorte, sui problemi che ci possono essere e su qualche soluzione.

Vorrei innanzitutto soffermarmi sulla necessità che il Parlamento e la Commissione valutino con attenzione il problema regolamentare legato all’utilizzo dei derivati. Siamo in un momento molto importante in termini di direttive e di regolamentazione, ragion per cui è bene che questa Commissione e il Parlamento siano ben addentro a questa vicenda.

Io vorrei trasmettere due messaggi principali. Il primo è che il ruolo degli strumenti finanziari nella crisi finanziaria è stato molto importante, ma che, come cercherò di dimostrarvi e come ho spiegato nella mia relazione, anche la risposta sul piano normativo è stata molto significativa. C’è, quindi, una regolazione più forte su questo tema. Il secondo punto riguarda l’utilizzo dei derivati nella pubblica amministrazione. Penso che, dalla nostra esperienza, siano emersi sostanzialmente tre o quattro punti essenziali. In primo luogo, vi è la necessità che, all’interno del MEF, si distingua in modo chiaro tra la competenza e l’obiettivo di collocare il debito pubblico e il tema della gestione dei rischi connessi, questioni che devono essere tenute distinte. Da questo punto di vista, credo sia importante l’accountability nei confronti di un soggetto terzo, che individuo nell’Ufficio parlamentare di bilancio. In terzo luogo, c’è l’esigenza di tracciare i rischi nel bilancio pubblico.

Partendo dal primo punto, perché gli strumenti derivati?

L’idea è che gli strumenti finanziari, e i derivati in particolare, svolgano un ruolo importante per far funzionare bene i mercati finanziari. Questa è quella che noi economisti chiamiamo la teoria dei mercati efficienti. L’idea è che gli individui, utilizzando i derivati per coprirsi dai rischi, siano in grado, tramite questi strumenti, di allocare al meglio le loro risorse e di coprirsi dai rischi nel miglior modo possibile. Questo approccio, però, come cercherò di dimostrare, ha sottovalutato il problema dei rischi sistemici, in merito al quale dirò qualche parola. Il problema è particolarmente rilevante a seguito della crisi finanziaria.

Sulla crisi finanziaria, come probabilmente saprete, ci sono due interpretazioni. C’è chi sostiene che la crisi sia dovuta a un aumento delle disuguaglianze negli Stati Uniti, tesi in cui c’è del vero, ma che, a mio avviso, non è centrale per quello che vogliamo discutere oggi. C’è poi chi parla di un cattivo funzionamento dei mercati a causa della cattiva vigilanza e regolamentazione. Questo tema impatta su quello dei derivati, in quanto essi sono entrati nella crisi con riguardo a due aspetti: le cartolarizzazioni e l’utilizzo che di essi è stato fatto da parte degli intermediari.

Sulle cartolarizzazioni non entro molto nel merito, mi limito a sottolineare come attraverso la costruzione di quelli che si chiamano bond strutturati, che presentano caratteristiche particolarmente complicate, si è creato quello che in finanza si chiama un «arbitraggio regolamentare». In sostanza, nelle pieghe della regolamentazione ci sono stati vantaggi per tutti: per i risparmiatori americani – i quali, grazie ai derivati, vivevano al di sopra delle loro disponibilità – per le banche che generavano i mutui e guadagnavano elevati profitti, e per le altre banche, che realizzavano quelle che si chiamano operazioni di carry trading, ottenendo profitti significativi.

Questo sistema ha funzionato grazie ad alcuni aspetti: l’opacità delle cartolarizzazioni, il mercato dei bond strutturati, il quale era soprattutto Over-The-Counter e, quindi, difficile da tracciare, nonché i limiti da un punto di vista normativo riguardo ai requisiti di capitale delle banche. Sostanzialmente, si trattava di un favor verso trading book rispetto al banking book, una questione tecnica molto importante. Quello che noi economisti sosteniamo è che, a causa di una regolamentazione inefficace, si è creato un mercato fittizio di queste cartolarizzazioni, in cui il prezzo non aveva alcun valore segnaletico.

C’è un secondo punto importante da non dimenticare: molte banche, negli ultimi dieci anni – in particolare cito il caso delle banche regionali tedesche – hanno smesso di svolgere l’attività creditizia tradizionale, preferendo operare in derivati per realizzare margini elevati. Il modo in cui sono stati utilizzati gli strumenti derivati è stato, a mio avviso, decisivo per ciò che è successo. Cito un dato molto significativo: il 50 per cento delle cartolarizzazioni oggetto dei mutui subprime era negli stessi bilanci delle banche. Se questo non fosse successo, non avremmo avuto la crisi finanziaria che abbiamo conosciuto.

L’esperienza italiana arricchisce il quadro con due episodi: il problema dei derivati nei bilanci degli enti pubblici locali e, in secondo luogo, l’affaire Monte dei Paschi. L’affaire Monte dei Paschi è molto complesso, ragion per cui non entro nel merito. Tuttavia, esso mostra i limiti strutturali che erano presenti all’interno della banca, la presenza di bilanci opachi e la difficoltà per l’Autorità di vigilanza a leggere i bilanci. Mostra, quindi, come i meccanismi di controllo che erano stati posti non funzionassero adeguatamente.

Passo subito a illustrare i rimedi proposti, perché, a mio avviso, questo è un tema importante. Si sostiene spesso che la crisi finanziaria non abbia avuto un impatto significativo sul mondo della finanza. A mio avviso, questa affermazione è falsa, nel senso che il mondo della finanza è capace di reinventare business e attività, ma ci sono persone che hanno perso il proprio lavoro. Che questo sia successo per giusta causa è un altro discorso, ma si tratta di un punto importante.

I rimedi proposti sono stati sostanzialmente due. Da un lato, si è proseguito nella direzione di considerare i mercati come un affare privato e, quindi, con l’European Banking Union tramite il bail-in di una banca si è giunti a dire «Se una banca fallisce, sono affari suoi. Lo Stato non deve più intervenire». La logica sottostante alla gestione delle crisi bancarie in futuro è divenuta sempre di più privatistica. In secondo luogo, si è intervenuti in modo significativo sui derivati, che sono l’oggetto della nostra discussione, almeno in cinque ambiti. Reputo importante che la Commissione sia a conoscenza di ciò, posto che il Parlamento sarà chiamato in futuro a prendere posizione su questo tema.

In primo luogo si è intervenuti con la regolamentazione bancaria. Mi riferisco a tutte le innovazioni proposte in Basilea 2,5 e Basilea 3. Sottolineo semplicemente che si è posto un limite ai vantaggi regolamentari, attraverso, tra l’altro, il CVA (Credit value adjustment). Come secondo punto importante, a mio avviso, c’è stata un’azione, tramite una direttiva in via di attuazione in Italia e con decisioni autonome di autoregolamentazione da parte dell’industria, al fine di migliorare la chiarezza dei bilanci delle società sul fronte dell’utilizzo dei derivati. Ciò avviene tramite l’adozione dei princìpi contabili dell’IFRS 9. Inoltre, non dobbiamo dimenticare – su questo sapete già tutto, perché avete già avuto piena delucidazione al riguardo – che nell’ambito degli enti locali i vincoli in merito all’utilizzo dei derivati adesso sono divenuti fortissimi e che c’è grande chiarezza verso l’amministrazione centrale in merito al loro utilizzo.
Vorrei mettere in evidenza che ci sono anche presìdi sulle cartolarizzazioni e sui mercati Over-The-Counter. Sottolineo un’ultima considerazione riguardo ai presìdi a tutela del risparmiatore. Al riguardo la direttiva MiFID porterà un impatto significativo.

Passo all’aspetto oggetto di discussione all’interno di questa indagine, che è quello dell’utilizzo dei derivati della pubblica amministrazione. Non mi occuperò dei derivati degli enti locali in quanto il danno ormai è stato fatto, il vuoto normativo era evidente ma, a seguito di misure molto forti, per le quali i vincoli all’utilizzo dei derivati sono molto significativi, le possibilità di utilizzarli oggi al fine di abbellire i bilanci degli enti locali sono molto limitate. Ciò vale, in parte, anche per gli enti pubblici. Avete già svolto una discussione sul passaggio al SEC 2010 e sulla decisione di Eurostat 2008. Penso, però, che ci siano ancora delle criticità e su queste mi soffermo.

Vorrei porre in evidenza quattro elementi di criticità su cui credo questa Commissione debba fare una valutazione. Il primo riguarda gli obiettivi e la governance sull’utilizzo dei derivati da parte dell’amministrazione centrale. In secondo luogo, mi porrò la domanda se sia necessario o meno per lo Stato utilizzare i derivati. In terzo luogo, farò qualche riflessione sul mark to market e, infine, mi occuperò del tema della trasparenza. Sono quattro temi su cui sicuramente voi avete già raccolto delle osservazioni e su cui cercherò di dire qualcosa.

Non ho elementi per entrare nel merito della questione se all’interno del MEF ci siano le competenze per gestire i derivati. L’unica cosa che posso dire è che, riguardo al collocamento del debito, il comportamento e l’efficacia del MEF sono sicuramente assodati. Il MEF è stato in grado, anche in situazioni molto difficili, di collocare bene i titoli del debito pubblico, cosa per nulla scontata. Questo aspetto spesso si sottostima. Ho letto le relazioni che vi sono state consegnate in occasione delle precedenti audizioni e vorrei soffermarmi su un punto importante: bisogna eliminare la commistione tra obiettivi, competenze, funzioni e responsabilità di coloro che si occupano di collocare il debito pubblico e di coloro che debbono gestirne i rischi. Si tratta di due ambiti distinti. Ad oggi, in base a ciò che emerge, queste due funzioni e obiettivi fanno entrambi capo alla Direzione II del MEF. Penso che maggiori presìdi di indipendenza su questo fronte siano importanti.

Dico questo perché altrimenti si rischia di confondere i due aspetti. I benefici che traggo tramite i derivati collocando titoli del debito pubblico in asta sono costituiti da un’eventuale riduzione dell’onere del debito pubblico, questo comporta un costo (relativo all’utilizzo del derivato) e il beneficio complessivo non è sempre chiaro. Ex post non si può sapere facilmente se era più conveniente emettere titoli di stato senza l’utilizzo dei derivati. Si finisce per confondere l’obiettivo di coloro che collocano il debito, i quali mirano a minimizzare il costo del debito stesso, e l’obiettivo di coloro che ne gestiscono il rischio. Sono due cose diverse. Vedremo tra un attimo che in qualunque impresa tali ambiti sono separati. Propongo, quindi, di istituire due funzioni diverse, l’una relativa al collocamento del debito e l’altra al risk management, dotando la seconda dell’indipendenza necessaria. L’argomento che il valore di mercato negativo di un derivato non può essere valutato di per sé, in quanto ha prodotto a suo tempo un beneficio in termini di minori oneri del debito pubblico, ha un suo valore ma, per appurare quest’affermazione in modo proprio, l’unico sistema è attribuire i due ruoli a funzioni e uffici diversi.

Cito due esempi. Nelle audizioni che avete svolto sono emerse due situazioni con qualche criticità: l’utilizzo dell’Interest Rate Swap di duration e delle swaption. Con riferimento alla prima questione, in primo luogo, tra i docenti e tra coloro che si occupano di queste tematiche, sappiamo bene che entrare in un Interest Rate Swap in cui si paga il tasso fisso equivale ad aumentare la duration. In base a ciò che è emerso, però, è stata compiuta un’operazione un po’ più complessa: sembra che si sia entrati in uno swap in cui si riceve il tasso variabile e si paga il tasso fisso per coprirsi dal rischio di tasso legato a future emissioni di BOT. Questa è stata l’operazione che è stata fatta dal 1995 in avanti. Questo può avere una sua logica, tuttavia ci sono due limiti importanti: di non coprirsi effettivamente dal rischio di tasso e di assumere – questo è il punto un po’ delicato – un rischio quantità e un rischio collocamento. Questo perché non sono sicuro di poter emettere oggi tutto quello che avevo previsto al momento della stipula del derivato. Questo fa sì, per esempio, che su questo tipo di strumenti non tutte le perdite siano derivate dal calo dei tassi dopo il 2007. Ci potrebbe essere un altro motivo: il tasso fisso del 4,40 per cento che pago oggi in media è probabilmente superiore ai tassi di mercato in quanto tiene conto di un rischio di controparte.

Il secondo elemento «critico», oggetto di discussione nelle precedenti audizioni, riguarda l’utilizzo delle swaption. L’aspetto posto in evidenza in modo chiaro è che le swaption sono state utilizzate per allentare la pressione di alcune controparti sul fronte del rischio sovrano e per facilitarne la partecipazione in asta. In linea di principio, ciò non è negativo, ma deve essere fatto in modo appropriato e l’unico modo è che il loro utilizzo sia valutato da un soggetto indipendente all’interno del MEF o eventualmente da un soggetto terzo.

Vorrei chiarire un punto. Non si tratta di stabilire se il MEF abbia speculato su possibili evoluzioni della curva dei tassi. Si tratta di capire se queste due operazioni siano state fatte in senso proprio, valutandone correttamente i rischi. Che tipo di controlli si possono istituire ? Di qui in avanti farò il paragone con un’impresa privata. So benissimo che il MEF non è un’azienda privata. Gli stakeholder in un’azienda privata sono gli azionisti e gli obbligazionisti, mentre qui sono i cittadini. Cerchiamo di trarre qualche indicazione. In un’azienda privata la funzione di controllo è attribuita a una funzione di risk management che è completamente indipendente da chi realizza e struttura un’operazione di emissione/trading. Il risk manager in un’azienda (compagnia di assicurazione o banca) è indipendente, non può essere cacciato da un amministratore delegato e fa riferimento esclusivamente al Consiglio di amministrazione. Inoltre – attenzione – risponde in solido, sotto determinate condizioni, nei confronti dell’Autorità di vigilanza da un punto di vista pecuniario. La mia proposta è di istituire una funzione di risk management autonoma all’interno del MEF che dipenda dal Ministro o dal Direttore generale. Come secondo punto, occorre definire, come si fa in qualunque impresa privata, le risk policy ex ante, le quali devono chiarire in che modo, di anno in anno, ci si intende coprire dai rischi di tasso, di controparte e via elencando. Proporrei inoltre di istituire – ma non so se ciò sia possibile in un bilancio pubblico – un fondo rischi riguardo a un eventuale mark to market negativo. Comunque occorrerebbe assicurare la tracciabilità di questo eventuale mark to market sulla futura spesa per interessi.

Passo alla seconda domanda: l’utilizzo di derivati è necessario? A mio avviso, lo è in misura molto limitata. Voi avete già ascoltato alcune considerazioni sul fatto che uno Stato che decide di coprirsi rispetto a un possibile innalzamento dei tassi d’interesse compie un’operazione legittima. Concordo. Tuttavia, faccio una riflessione che può sembrare un po’ teorica. Non dobbiamo considerare soltanto il costo del debito, bensì anche le entrate. Una situazione di elevati tassi di interesse normalmente si verifica quando l’economia di uno Stato va bene, il che vuol dire che esso ha entrate fiscali molto elevate. Ciò significa che è già coperto, anche se in modo non del tutto completo, da un rialzo dei tassi d’interesse. Facendo un Interest Rate Swap e non un Cap, che cosa faccio ? Ovviamente, mi tutelo perché non pagherò molto quando le cose vanno bene, ma, quando le cose vanno male, come ora, con bassi tassi d’interesse, non beneficio assolutamente di questo vantaggio. Ci siamo trovati, quindi, in una situazione in cui, facendo un’operazione corretta, che tutti i manuali consigliano a un’impresa privata per tutelarsi dal rialzo dei tassi (minimizzare il costo del debito), in realtà, guardando il bilancio pubblico nel suo complesso, ci troviamo esposti nel caso in cui l’economia non vada bene.

Il secondo punto, a mio avviso, importante è che la crisi finanziaria ha cambiato il mondo. Non sarà più possibile, da qui in avanti, sostenere che uso un Interest Rate Swap per coprirmi dal rischio di tasso in senso stretto. Perché c’è quello che si chiama il basis risk, che è emerso dal 2007 in avanti, ossia il rischio di debito sovrano. Ricordo che lo swap è agganciato all’Euribor, ma che c’è solo una piccola quantità di titoli di Stato legati all’Euribor, i CCTEu, che sono pari a 90 miliardi di euro e costituiscono il 5 per cento del totale. Tutti gli altri titoli sono BOT e CCT, i quali non sono agganciati all’Euribor, sono agganciati al tasso di mercato sui titoli di Stato italiani ed incorporano quindi uno spread, che è legato al rischio del debito sovrano.

Questo è un punto importante, una lezione da apprendere. Certo, prima del 2007 non si poteva apprezzare, ma l’utilizzo degli swap permette di coprirsi rispetto alle variazioni della curva dei tassi per decisione della BCE, ma non rispetto allo spread di mercato sui titoli di Stato italiani. Questo tipo di strumento non è, quindi, necessariamente adeguato per coprirsi dai rischi. Accolgo con favore il fatto che il Ministero attualmente utilizzi strumenti di copertura quasi esclusivamente per le emissioni in dollari, in relazione alle quali, a mio avviso, c’è un’importante esigenza di copertura.

Passo agli ultimi due aspetti che voglio sottolineare. Il primo riguarda il mark to market. In molte discussioni ci si è chiesti se esso sia una perdita effettiva o meno. Non c’è alcun dubbio sul fatto che il mark to market costituisca una perdita effettiva se c’è una clausola di estinzione anticipata. In assenza di una clausola di estinzione anticipata, i 42 miliardi di euro rappresentano comunque il valore atteso dei flussi che il MEF dovrà pagare di qui in avanti. Una cifra così significativa comporta che, a spanne, nei prossimi anni il MEF dovrà pagare tra i 2 e i 3 miliardi all’anno per questi contratti. Del resto, ne ha pagati circa 12,7 dal 2011 al 2014. Il mark to market è quindi un valore prospettico che – attenzione – nel settore privato sarebbe il prezzo di una eventuale transazione e va ad impattare direttamente sul bilancio, attraverso la rettifica delle poste in essere. Non mi interessa sapere se sia effettivamente una perdita. È un valore che definisce una perdita futura, non dico certa, ma assai probabile, che occorre tener presente. In che modo ? Un fondo rischi a copertura dei derivati, a mio avviso, potrebbe essere una soluzione da valutare. Non so come possa essere contabilizzato nell’ambito del bilancio pubblico. Occorre comunque rendere trasparente il mark to market ex post.

Io farei anche molta attenzione all’idea di chiudere queste transazioni con mark to market negativo. Questo farebbe emergere oggi un valore negativo nel bilancio dello Stato. Qui si pone un trade-off importante: pago subito una cifra significativa o aspetto un rialzo dei tassi ? Facciamo attenzione, perché lo scenario giapponese di bassi tassi di interesse è qualcosa che non è del tutto fuori dai nostri orizzonti. Sottolineo un punto importante. Con i Credit Support Annex, che ora il MEF può stipulare, di fatto si va a riconoscere il mark to market seduta stante. Il Credit Support Annex è una forma di collateralizzazione che è in funzione del mark to market. Se io stipulo dei contratti con mark to market negativo, questo viene subito postato sotto forma di liquidità presso un conto terzo e, quindi, comportano un’uscita secca in termini di contabilità dello Stato italiano.

Vengo all’ultimo punto. Quale livello di trasparenza è opportuno ? Proseguo il mio confronto con l’impresa privata: ci sono almeno tre livelli di controllo interno: chi fa l’operazione, il risk management e l’audit. Sono tre funzioni che in una banca sono indipendenti e sanzionati se non svolgono bene il loro lavoro. Inoltre, ci sono almeno altri due o tre soggetti terzi, tra cui il Collegio sindacale, la società di revisione e l’Autorità di vigilanza. Sottolineo un punto. Nessuna impresa rende pubblici, nel dettaglio, i propri conti e le proprie posizioni in derivati, perché questo la esporrebbe a svantaggi competitivi significativi.

Cosa si può fare nel settore pubblico ? A mio avviso, si deve promuovere un controllo terzo rispetto al MEF, che può essere svolto dall’Ufficio parlamentare di bilancio, piuttosto che dalla Corte dei conti. Esso dovrebbe fare una valutazione ex post analitica sui singoli contratti. Questa valutazione dovrebbe concentrarsi sul rispetto delle risk policy e sulla valutazione di come l’impatto di queste misure di risk management abbia comportato, eventualmente, una riduzione del debito, così da fare chiarezza ed evitare che si dica che i derivati hanno portato un vantaggio nella riduzione del costo del debito pubblico, ma che non si è in grado di valutarlo. Questa sarebbe una soluzione Pag. 17del tutto rispettosa delle competenze del MEF, permette di fare un utilizzo dei derivati molto trasparente e credo eviti molti equivoci.

Vengo infine alle informazioni che potrebbero essere rese pubbliche. Credo che l’informazione che attualmente viene resa pubblica sotto forma di dati aggregati, con un maggior dettaglio per tipologia di contratti, sia ciò che si potrebbe rilasciare. Semestralmente il MEF potrebbe rilasciare i singoli contratti e fornire il dettaglio delle operazioni a un’Autorità terza, quale l’Ufficio parlamentare di bilancio, il quale, a sua volta, potrebbe svolgere le verifiche rispetto al fatto che le risk policy siano soddisfatte, che si sia valutato correttamente un derivato e via elencando. Annualmente il MEF dovrebbe stabilire ex ante delle risk policy per verificare i livelli di copertura e, infine, nei documenti programmatici del MEF si dovrebbe trovare traccia della valutazione degli effetti che i derivati avranno sulla spesa pubblica futura. Ritengo che l’esigenza di una più ampia disclosure vada qualificata. C’è bisogno di un soggetto indipendente che possa valutare queste informazioni: Corte dei Conti e Ufficio parlamentare di bilancio possono essere due buoni esempi. Trovo, per esempio, non fattibile l’idea di delegare la gestione del rischio a un soggetto terzo, quale un’Autorità indipendente. La gestione del rischio deve essere vicina a chi fa le operazioni, ma in modo indipendente.

Passo alle conclusioni. In primo luogo, come ho detto prima, è bene che il Parlamento su queste cose sia presente, soprattutto in fase ex ante, di definizione della regolamentazione e di attuazione di alcune direttive. Il progetto Capital Markets Union, per esempio, è molto impegnativo e porterà, nei prossimi tre o quattro anni, a lavorare intensamente in Europa su questo fronte. Credo che il Parlamento svolga un ruolo importante su questi aspetti. Sul fronte dei derivati della pubblica amministrazione, come ho già detto, penso debba essere opportunamente migliorata la governance, andando verso una maggiore distinzione tra le due funzioni. Credo anche, però, che, almeno per il futuro – non so se questa sia una nota lieta – i vincoli che sono stati posti all’utilizzo dei derivati siano molto significativi anche sul fronte dell’amministrazione pubblica.

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