La padella ustiona meno della brace. Perché l’Italia non deve uscire dall’euro.
di Marcello Messori

Apr 11 2014
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1. Introduzione 

I vantaggi e gli svantaggi, che l’economia italiana e quella di altri Stati membri ‘periferici’ otterrebbero se uscissero dall’area dell’euro, non sono simmetrici a quelli derivanti da una loro permanenza in quest’area. Le ragioni della asimmetria sono, almeno, due. Primo: l’opting out, che è stato utilizzato nel 1998 dal Regno Unito e dalla Danimarca al momento della creazione della  moneta unica, non è utilizzabile dai Paesi periferici dell’Unione economica e monetaria europea (UEM) se non mediante un’improbabile revisione dei Trattati. Secondo: l’uscita da un’area monetaria richiede comunque di gestire gli stock accumulati e denominati in quella moneta; tale problema, definibile come legacy, non si sarebbe posto con un opting out iniziale.

In quanto segue, parto da un’ipotesi apparentemente accademica: l’abbandono definitivo dell’UEM e, di conseguenza, dell’Unione europea (UE) da parte di uno Stato membro. Gli effetti di una simile scelta sono interessanti perché prefigurano l’esito, a cui portano anche scenari più realistici. In particolare, essi si applicano al caso dell’uscita temporanea di un Paese periferico che miri ad attuare un periodo di aggiustamento. La mia analisi è specificamente dedicata all’Italia; e la mia conclusione è che, se decidesse di uscire temporaneamente dalla ‘padella’ della moneta unica, questo Paese sarebbe condannato alle fiamme del sesto cerchio dell’inferno dantesco. Ciò non equivale a sostenere che l’attuale configurazione dell’UEM rispecchi il migliore dei mondi possibili. Le critiche, che possono essere mosse alle scelte europee, non mettono però in discussione la permanenza dell’Italia (e degli altri Paesi periferici) nell’area dell’euro.

2. Uscire dall’UEM, uscire dall’UE

A normativa data, l’uscita dall’UEM comporta l’uscita dalla UE. Pertanto, per uno Stato membro, gli svantaggi di un abbandono unilaterale dell’area dell’euro sarebbero massicci. La conseguente uscita dall’UE porterebbe all’espulsione dal mercato unico e dagli altri patti di cooperazione. Per di più, i membri della UE non accetterebbero di siglare con lo Stato transfuga (d’ora in poi, indicato come T) accordi simili a quelli che legano la UE a molti altri Paesi europei ed extra-europei (per es., Paesi in via di sviluppo) e che sfuggono all’obbligo WTO  di applicare a tutti la clausola delle condizioni migliori. Di conseguenza, T sarebbe condannato alla svalutazione della propria moneta e, poi, al protezionismo; e, in un mondo di mercati integrati, esso sarebbe cancellato dal novero delle economie avanzate.

Poiché né il suo governo né gran parte delle sue imprese private sarebbero in grado di far fronte ai loro debiti in euro mediante gli incassi espressi nella nuova e svalutata moneta nazionale, T dovrebbe dichiararsi insolvente nei mercati internazionali; il che lo escluderebbe, per un periodo di tempo non breve, dalle transazioni monetarie non coperte da adeguati flussi ‘reali’ di beni e servizi. In tale situazione, è altamente probabile che le imprese di T con proiezione internazionale e senza posizioni interne di rendita sarebbero spinte a trasferire il loro quartier generale all’estero; e molte piccolo-medie e medie imprese verrebbero espulse dalle catene internazionali del valore. Tutto ciò innescherebbe pressioni per l’aumento della spesa pubblica (maggiori trasferimenti alle imprese e rafforzamento delle protezioni sociali) e rialzi nei tassi di interesse sulle varie forme di debito, cosicché quote crescenti del debito pubblico e di quello privato andrebbero ‘monetizzate’ mediante la subordinazione della banca centrale agli obiettivi politici. Ne deriverebbero gravi difficoltà finanziarie per le famiglie con mutui e un impoverimento degli aggregati sociali a reddito fisso.

3. Uscire per un po’ dall’UEM

 Il precedente quadro rappresenta una ‘soluzione’ estrema, che non sembra adattarsi al caso italiano. Si supponga perciò, più realisticamente, che l’Italia concordi con gli altri Stati membri dell’UEM un periodo limitato fuori dall’euro (ossia l’adozione temporanea dell’euro-lira), con l’impegno a rientrare una volta effettuati gli aggiustamenti ‘reali’ e monetari necessari al ripristino della sua competitività. Il costo maggiore di una simile opzione sarebbe dato dalla gestione dei debiti contratti in euro  (legacy), in quanto l’aggiustamento monetario si baserebbe su una forte e ripetuta svalutazione dell’euro-lira rispetto all’euro.

Innanzitutto, vi sarebbe il problema di gestire il debito nei confronti degli intermediari e dei risparmiatori esteri o estero-vestiti che detengono titoli del debito pubblico italiano. Anche se questa percentuale è oggi minore di quella raggiunta negli anni precedenti la crisi europea dei debiti sovrani, si tratta ancora di una cifra ingente e in aumento. Lo Stato italiano dovrebbe far fronte ai suoi impegni debitori, corrispondendo gli interessi e liquidando il debito alla scadenza, mediante la conversione in euro di un’euro-lira in rapida svalutazione. Lo Stato italiano dovrebbe inoltre gestire l’inevitabile contenzioso rispetto ai cittadini e alle società (finanziarie e non finanziarie) italiane che, detenendo vecchi titoli del debito pubblico denominati in euro e non in euro-lire, chiederebbero il rispetto del contratto originario di debito.

Un problema analogo si applicherebbe anche ai gruppi bancari italiani. E’ noto che, specie fra la fine degli anni Novanta e il 2007 ma persino nell’ultimo periodo di forte credit crunch, il settore bancario italiano ha dovuto sopportare uno strutturale funding gap – ossia, ha dovuto coprire un divario strutturale fra l’ammontare dei prestiti erogati e la raccolta tradizionale (i depositi bancari).  Dopo la crisi finanziaria internazionale e dopo le difficoltà dell’UEM, anche a causa della positiva evoluzione nella regolamentazione europea dei mercati finanziari (il processo di Unione bancaria), le banche italiane hanno incontrato crescenti difficoltà a emettere obbligazioni non garantite e a basso rendimento. Pertanto, esse hanno maturato una forte posizione debitoria nel mercato internazionale wholesale e nei confronti della Banca centrale europea (BCE). Per giunta, al fine di difendere margini di redditività, esse hanno utilizzato la liquidità a basso costo offerta dalla BCE per acquistare titoli italiani del debito pubblico a più alto rendimento. Ne deriva che, nel caso di uscita temporanea e concordata dell’Italia dall’euro, il nostro settore bancario correrebbe il forte rischio di ottenere gran parte dei propri ricavi in euro-lire e di dover restituire gran parte dei propri debiti in euro. Considerazioni non molto diverse andrebbero ripetute per tutte le imprese non finanziarie che operano nel mercato nazionale ma acquistano una parte significativa dei loro input nei mercati internazionali.

La sola parte dell’economia italiana, che potrebbe trarre vantaggio da una situazione del genere, è quella rappresentata dal nucleo delle nostre imprese non finanziarie che hanno una prevalente presenza nei mercati internazionali e che sono in grado di utilizzare  fornitori nazionali. Tale parte dell’economia italiana vedrebbe, infatti, aumentare la propria competitività di prezzo a livello internazionale. Essa non è però sufficientemente estesa da sostenere la crescita di un sistema economico appesantito dagli altri fattori appena esaminati. Per di più, i vantaggi rischierebbero di essere effimeri.

4. La gestione dei debiti 

Per giustificare l’ultima affermazione, si approfondiscano i problemi di debito dell’altra e più consistente parte dell’economia italiana. L’alternativa è: (a) onorare nella moneta originaria tutti i debiti, contratti almeno con controparti estere, e sobbarcarsi così pesanti e crescenti oneri data la progressiva svalutazione dell’euro-lira; (b) ripudiare i debiti contratti in euro, così da rinegoziarli in termini di euro-lire.

Nello  scenario (a), per fronteggiare i crescenti oneri finanziari per il servizio dei debiti, sia lo Stato italiano che le nostre imprese dovrebbero aumentare i loro incassi monetari grazie al rilancio della domanda aggregata. La prolungata stagnazione attraversata dall’economia italiana fra l’inizio degli anni Duemila e il 2005, le acute fasi di recessione che hanno colpito questa stessa economia fra il 2008 e la fine del 2009 e fra la prima metà del 2011 e la fine del 2013,  la connessa caduta del potere di acquisto delle nostre famiglie hanno però causato una caduta della domanda interna e una situazione di tendenziale deflazione. Il rilancio della domanda interna richiederebbe, pertanto, consistenti aumenti salariali e aumenti della spesa pubblica (in termini di trasferimenti e investimenti). I primi sarebbero per giunta giustificati dagli elevatissimi tassi di inoccupazione, sopportati soprattutto dalle componenti più fragili della popolazione attiva italiana, e dalle difficoltà economico-sociali che una parte crescente delle nostre famiglie hanno dovuto sopportare dal 2008 a oggi  (con drammatici aumenti nei tassi di povertà relativa e con una permanenza di alti livelli di povertà assoluta). Gli aumenti dei salari e della spesa pubblica sarebbero, infine, l’effetto della stessa pressione sociale alla base dell’uscita dall’euro e del preesistente processo di consolidamento del bilancio pubblico.

Gli aumenti salariali spingerebbero, però, le imprese ad aumentare i prezzi con un passaggio brusco da una tendenziale deflazione a un’elevata inflazione; e l’aumento della  spesa pubblica obbligherebbe lo Stato ad aumentare ulteriormente le tasse, a innalzare i tassi di interesse sui titoli del debito per attrarre gli investitori nazionali e internazionali nonostante – rispettivamente – i crescenti “rischi di inflazione” e “rischi di svalutazione” e/o a monetizzare una parte del proprio debito. Il che comporterebbe una brusca interruzione nel contenimento della spesa pubblica.

Si innesterebbe così quel circolo vizioso fra inflazione e svalutazione, quella spinta agli squilibri fiscali fuori controllo e quel rafforzamento delle posizioni di rendita che sono stati tipici della situazione italiana degli anni Settanta e Ottanta. L’aumento dei prezzi interni richiederebbe di riprodurre la competitività di prezzo delle nostre imprese esportatrici nei mercati internazionali mediante accelerazioni della svalutazione dell’euro-lira. Peraltro, la svalutazione aumenterebbe i costi delle importazioni per le imprese e l’alta inflazione minerebbe il potere di acquisto delle famiglie a reddito fisso e/o prive di posizioni protette di rendita. Ne discenderebbe un’ulteriore spinta ai già aumentati trasferimenti pubblici a favore di imprese e famiglie; il che porterebbe la spesa pubblica corrente fuori controllo. Gli squilibri nel bilancio pubblico dell’Italia sarebbero, poi, accresciuti dai crescenti oneri finanziari sui titoli pubblici e dalla necessità di aumentare gli investimenti pubblici.

5. Si può reggere un ritorno agli anni Settanta e Ottanta?  

Il degrado dell’economia italiana rischierebbe di sfociare in vincoli incompatibili con il funzionamento del mercato e con il perseguimento di efficienti assetti istituzionali. Per esempio, potrebbe diventare necessario sottoporre le banche a distorsivi condizionamenti di gestione, quali  obblighi di destinare una quota del loro attivo all’acquisto di titoli pubblici e al finanziamento delle piccolo-medie imprese. Inoltre, potrebbe diventare inevitabile subordinare le decisioni di politica monetaria a scelte politiche, obbligando la  Banca d’Italia ad acquistare quote crescenti del debito pubblico e a  procedere a salvataggi ogni qual volta si concretizzi un rischio di insolvenza per date banche. Di conseguenza, ritorneremmo a un settore bancario ‘pubblicizzato’ che fungerebbe da canale ideale per la commistione fra economia, politica e malaffare, che sfuggirebbe alla vigilanza di una banca centrale assediata e che scaricherebbe le proprie perdite sulla collettività.

Dato il già elevato debito pubblico e l’indebolimento delle istituzioni economiche, che sono un tratto tipico dell’Italia nel dopo crisi, lo scenario sopra descritto non permetterebbe certo di rafforzare la competitività della nostra economia e di disegnare un percorso di rientro nell’UEM con posizioni competitive consolidate. Lo scenario (a), enunciato all’inizio del precedente paragrafo e posto in contrapposizione allo scenario (b), si rivelerebbe una falsa alternativa. Esso condurrebbe, infatti, l’Italia dentro lo scenario (b) che, a sua volta, ci condannerebbe al disastroso destino del Paese T (cfr. par. 2).

Quello che appariva un risultato accademico si trasforma, così, nell’esito più probabile che sarebbe indotto da un’uscita temporanea dell’Italia dalla moneta unica. Non si tratta di una conclusione sorprendente. L’idea di una sospensione dell’appartenenza all’euro equivale, infatti, a proporre un temporaneo isolamento dell’economia italiana dai mercati internazionali. Nell’era dei mercati integrati, il protezionismo isola però dalle innovazioni e recide i legami fra le imprese nazionali  e il resto dell’economia mondiale. Come è possibile pensare che una mossa del genere induca aggiustamenti virtuosi e recuperi di competitività invece che arretratezza e chiusura? L’Italia si troverebbe così fuori dall’euro e in condizioni ancora peggiori rispetto a quelle degli anni Settanta e Ottanta.  Essa finirebbe per cadere in quella situazione di  bancarotta che, pure, aveva cercato di evitare. Sul nostro Paese si allungherebbe lo spettro della sindrome argentina con derive populistiche a livello istituzionale e con un progressivo ma pesante impoverimento della popolazione a livello economico e sociale.

6. Conclusioni

Questa implicazione della precedente analisi esime dallo spiegare ulteriormente perché un’uscita dell’Italia e di altri Paesi periferici dall’euro non sia affatto conveniente: i vantaggi di breve termine, riconducibili a un’accresciuta competitività di prezzo per il nucleo di imprese esportatrici, sono chiaramente sovrastati dagli svantaggi di medio e lungo termine che chiamano in causa la stessa tenuta sociale e istituzionale del sistema nazionale.

Dobbiamo allora rassegnarsi all’Europa così come è? Il capitolo dei vantaggi e degli svantaggi, che l’Italia e altri Paesi periferici possono ottenere dalla loro permanenza nell’euro, resta da scrivere e richiede un’analisi delle necessarie trasformazioni delle istituzioni e dei meccanismi  europei.

E’ evidente che la priorità dell’economia italiana (così come quella di gran parte degli altri Paesi periferici dell’UEM) è il riavvio della crescita; ed è altrettanto evidente che, nel breve periodo, tale riavvio necessita di un rilancio della domanda aggregata a livello sia europeo che nazionale perché bisogna invertire l’inerzia negativa ereditata da una lunga e profonda recessione. Il ciclo economico europeo, la ripresa della domanda interna in alcuni Stati membri ‘centrali’ e le iniziative di molti governi dei Paesi periferici stanno aprendo opportunità al riguardo. Perché queste fragili prospettive di crescita di breve termine diventino robuste consolidandosi in una crescita di medio periodo, è però necessario che l’Italia e gli altri Paesi periferici dell’UEM recuperino una competitività non fondata sulla mera compressione salariale (ossia su una concorrenza senza prospettive nei confronti dei Paesi emergenti). Si tratta di realizzare quelle riforme per la competitività che riguardano sia il miglioramento dell’ambiente istituzionale sia il ridisegno degli incentivi (non necessariamente pecuniari) per la riorganizzazione innovativa delle imprese. Tali riforme si basano su interventi microeconomici che andrebbero realizzati, anche se il contesto europeo fosse di espansione, e che potrebbero sostanziarsi nel cosiddetto ‘partenariato per la crescita’ (i vecchi contractual arrangement).

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