I Derivati dello Stato e la Gestione del Debito Pubblico. Alcune risposte alle “30 domande”
di Michele Bonollo e Marco Pavoni

Nov 17 2016
I Derivati dello Stato e la Gestione del Debito Pubblico. Alcune risposte alle “30 domande”   di Michele Bonollo e Marco Pavoni

E’ di metà settembre la contestazione per presunto Danno Erariale di 4,1 miliardi di €, trasmessa dalla Corte dei Conti del Lazio a Maria Cannata, capo della Direzione responsabile della gestione del Debito Pubblico presso il Ministero dell’Economia e Finanze (MEF), al suo predecessore Vincenzo La Via e agli ex Direttori Generali del ministero Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli.

Anche la banca d’investimento statunitense Morgan Stanley è stata convocata dalla magistratura contabile.

La vicenda è nota a partire dal marzo 2015, ed è stata rilanciata a più riprese anche quest’anno, in particolare a seguito della Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario presentata dalla Procura Regionale della Corte dei Conti del Lazio (4 marzo 2016). L’attenzione mediatica, più che volta a fornire un’informazione argomentata e per quanto possibile oggettiva, è parsa scivolare in più circostanze in derive sensazionalistiche. I riferimenti sono molteplici e riguardano tutte le principali testate italiane.

Sulla scorta dei pochi elementi disponibili, ci proponiamo di esaminare la complessa questione con l’obiettivo di dare qualche risposta ai molti quesiti sorti in merito nei mesi scorsi.

1.      I termini della contestazione della Corte dei Conti

Il presunto danno sarebbe stato causato da un uso improprio e senza controllo dei derivati. L’indagine riguarda in particolare i 3,1 miliardi versati dal MEF alla banca d’investimento americana Morgan Stanley a inizio 2012, nella fase più acuta della crisi del debito sovrano italiano, per l’estinzione anticipata di alcuni contratti.

L’invito a comparire è stato inviato come detto oltre che alla Cannata e a La Via anche ai Direttori Generali allora in carica: Vittorio Grilli negli anni in cui i derivati furono stipulati (tra il 1999 e il 2005) e Domenico Siniscalco quando fu negoziata con Morgan Stanley la rescissione dei contratti oggetto dell’istruttoria (fine 2011 – inizio 2012). Il primo da maggio 2014 è presidente del Corporate & Investment Banking per l’area Europa, Medio Oriente e Africa di JP Morgan, mentre il secondo è ora Vice-Presidente di Morgan Stanley International.

La stessa Morgan Stanley è stata convocata avendo la Corte ravvisato nel suo comportamento pratiche scorrette. Secondo la Corte, la banca non avrebbe dovuto avere la possibilità di rescindere unilateralmente i contratti.

2.      Il Contesto. Gli interessi nel Bilancio dello Stato. Perché i Derivati?

Al fine di provare a fare un po’ di chiarezza e aiutare anche i non addetti ai lavori a comprendere i termini del problema, è opportuno fare un passo indietro e introdurre qualche elemento di “tecnica finanziaria”.

A partire dalla seconda metà degli anni ’90 i derivati sono stati negoziati per coprire il bilancio dello stato dal rischio di fluttuazioni nella spesa per interessi derivante dal debito pubblico italiano nel medio-lungo periodo. Queste fluttuazioni sono tipicamente originate da:

  • Titoli di Stato indicizzati al mercato monetario, come i CCT, o naturalmente collegati ai tassi di mercato monetario per la loro breve durata, come i BOT;
  • Titoli di Stato indicizzati all’inflazione, come i BTPi;
  • L’incertezza sui rendimenti in asta delle emissioni future volte a fare fronte alla scadenza dei titoli correnti e al fabbisogno annuale dello stato. La figura sotto riporta a titolo di esempio lo scadenzario dei prossimi 12 mesi, che evidenzia uno stock di circa 340 miliardi di € in scadenza. Per maggiori dettagli si veda [6].

In questo quadro lo Stato, o meglio chi ne gestisce il debito pubblico, ha gli stessi obiettivi di un’azienda, in qualche misura opposti a quelli delle banche:

  • nelle aziende infatti il rischio sui tassi di interesse è legato alla incertezza dei cash-flow futuri, relativa in particolare alla posizione debitoria per lo più a tasso variabile, che rende ardua una pianificazione finanziaria su cui fondare piani di sviluppo e investimento. Per questo motivo le aziende si coprono spesso da questo rischio attraverso operazioni di Interest Rate Swaps (IRS) dove incassano il tasso variabile (EURIBOR) e pagano all’intermediario (non infrequentemente la banca finanziatrice) un tasso fisso, così sterilizzando il tasso variabile (EURIBOR) che pagano ad esempio su un mutuo. In tale modo le aziende si costituiscono una posizione netta in cui pagano interessi a tasso fisso, come tali quindi prevedibili e determinati nel piano generale dei cash-flow aziendali;
  • nelle banche il rischio sui tassi di interesse è legato all’incertezza sul “valore” delle poste di bilancio, o meglio alla sensitività dello stesso rispetto alla variazione dei tassi di mercato (c.d. mark-to-market o MtM). Dunque sono considerate particolarmente “rischiose” le poste a tasso fisso e a lunga scadenza. Infatti una banca monitora con estrema attenzione lo stock di mutui erogati a tasso fisso, e attraverso la funzione di Asset & Liability Management (ALM) presente in tutte le banche di medie e grandi dimensioni, effettua coperture strategiche con IRS che per durata e dimensione consentono di trasformare i cash-flow a tasso fisso sui mutui in cash-flow a tasso variabile (EURIBOR + spread) dunque “agganciati” alle dinamiche di mercato della curva dei tassi.

Così come le aziende, il Tesoro nella sua azione di supporto alle politiche di pianificazione del governo che definiscono i Documenti di Economia e Finanza (DEF, ex DPEF) ha l’obiettivo di rendere stabile, certa e auspicabilmente la più bassa possibile la spesa per interessi connessa al debito pubblico.

L’ultimo Rapporto sul Debito Pubblico relativo al 2015 e pubblicato a Luglio 2016 cita testualmente: “I criteri di gestione sono infatti allineati alle politiche seguite dai  gestori  del  debito  pubblico  e  raccomandate  dalle  istituzioni  finanziarie multilaterali, la c.d. best practice internazionale, e si basano sul riconoscimento di una relazione inversa tra costo e rischio (di rifinanziamento e di tasso d’interesse) del debito e quindi sulla necessità di minimizzare i costi in funzione dei livelli di rischio ritenuti accettabili, in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo.”

A questo riguardo, è importante rammentare alcuni dati importanti.

Oggi la spesa per interessi sul debito pubblico è nell’ordine di 70 miliardi di € l’anno, e corrisponde a circa il 4% del PIL e al 10% delle spese totali del bilancio dello stato. Ma se guardiamo sia a metà anni ’90, quando si sono stipulati i primi derivati, sia a 10 anni fa, la spesa per interessi era allora vicina al 25% delle spese totali dello stato e superava ampiamente il 10% del PIL. Si veda al riguardo [2] e [4].

Occorre inoltre osservare che nel 1995 la quota di titoli a tasso variabile (CCT) costituiva circa il 28% del totale dei titoli in circolazione (poco più di quella dei BOT); la percentuale dei titoli a tasso fisso era pari al 38%. A fine marzo del 2015, i CCT costituivano quasi il 2% del complesso dei titoli in circolazione, mentre quelli a tasso fisso oltre il 72 (BTP e alcuni CCT), 80% se si includono i BTP indicizzati all’inflazione europea e i BTPItalia, non essendo questi ultimi dipendenti dai tassi di interesse. Si veda al proposito [7].

Riassumendo, la stipula di derivati da parte di chi ha la responsabilità della gestione del debito pubblico ha (e certamente ancora più aveva in passato) una ratio e una giustificazione, per cui ci sembra perlomeno forzato il termine “scommessa” più volte utilizzato al riguardo.

Sono altri, nel merito, gli aspetti che vanno compresi e/o i comportamenti passibili di miglioramenti.

3.      Alcune risposte

Cerchiamo quindi di illustrare le coordinate del problema da analizzare, e in qualche modo rispondere alle note “30 domande” poste nel 2015 dal Prof. Brunetta sulla tematica. Si veda [1].

  • E’ speculazione? La risposta crediamo sia negativa; infatti in assenza di altri elementi di segno contrario, si è trattato di copertura per i motivi visti sopra.

    E questo vale non solo per gli IRS negoziati a fronte dei titoli a tasso variabile ma anche di quelli aventi finalità di allungamento della duration del complessivo debito pubblico e che hanno l’obiettivo di stabilizzare il costo connesso al rinnovo dei titoli a tasso fisso in scadenza.

    Le masse di debito pubblico note a tutti portano a escludere vi fosse un “eccesso” di coperture per fini speculativi come insinuato da taluni (si veda [8]); infatti a fine 2015 il rapporto in termini di nozionale tra derivati e debito pubblico era dell’8,32%. Anche prendendo a riferimento la sola quota dei titoli a tasso variabile (circa il 13%), a fine 2015 il rapporto dei nozionali sarebbe stato del 63%  circa (si veda [9]). E’ quindi specioso enfatizzare il concetto di “perdite” connesse a queste posizioni. E concordiamo con quanto osservato da molti che non ha senso mettere (come ha fatto Bloomberg – si veda [10]) l’Italia prima nella classifica delle perdite da derivati se queste non sono rapportate al nozionale e soprattutto alla dinamica dei tassi (in marcata riduzione) e dei relativi costi  sul debito pubblico.

  • Occorre ricordare una volta di più che i derivati costituiscono concettualmente un’assicurazione. E’ quindi fuorviante il “rammarico del giorno dopo”, cioè di avere pagato coperture (che nel caso dei derivati significa MtM che diventano negativi per il soggetto che si copre) perché queste “a posteriori” si sono rivelate non necessarie. In assenza di una disclosure sui derivati del MEF, non è possibile esprimere giudizi definitivi. Tuttavia, se da un lato Bloomberg riporta nel 2011-2014 perdite su derivati del MEF per 16.7 miliardi (si veda [10]), la spesa per interessi, pur con uno stock di debito pubblico crescente, è scesa tra il 2012 e il 2015 globalmente per circa 30 miliardi di Euro, si veda [12]. Quindi seppur ingenti, le perdite vanno confrontate con i minori costi sulla posizione coperta. La comparazione dei due valori consente di porre in una prospettiva più corretta, meno negativa, le operazioni condotte.
  • La copertura era ben congegnata? Non avendo dati di dettaglio è difficile dire alcunché. Una copertura è efficace se il derivato per size (importo nozionale), scadenze, parametro di riferimento, c.d. underlying (EURIBOR o altro) è efficace nel compensare i rischi della posizione che si vuole coprire o, nel caso degli IRS con finalità di allungamento della duration, se i derivati hanno consentito di raggiungere gli obiettivi di stabilizzazione del costo del debito; elementi questi su cui le pur ampliate Linee Guida per la gestione del debito pubblico forniscono dettagli ancora limitati.

    Può essere in qualche misura discutibile il ricorso alla vendita di receiver swaption in relazione agli obiettivi di stabilizzazione del costo del debito e di allungamento della sua durata media. Una     swaption è infatti un’opzione che dà la facoltà all’acquirente di entrare ad una scadenza stabilita, in uno swap ad un tasso prefissato (strike) per una data durata. Nel caso di una receiver il compratore  acquista il diritto a ricevere tasso fisso contro variabile e chiaramente eserciterà l’opzione allorché il tasso corrente di mercato alla scadenza dell’opzione è inferiore allo strike. Il venditore riceve  all’atto della stipula un premio ma, in caso di esercizio, si ritrova a pagare un tasso fisso più alto di quello di mercato.

    La vendita di opzioni in passato ha consentito di ridurre il deficit pubblico (per l’importo dei premi incassati) in coerenza con quelli che erano i principi contabili vigenti (c.d. SEC 1995), ma oggi gli alti strike ad essi connessi comportano in sede di esercizio la stipula di IRS con MtM fortemente negativi che, in funzione delle nuove regole contabili comunitarie in vigore da fine 2014 (c.d. SEC 2010), determinano un incremento non piccolo del debito pubblico.

    Nondimeno è da sottolineare che quanto accaduto tra fine 2011 e inizio 2012 è un fenomeno che non poteva essere previsto (e nella dimensione osservata) quando le coperture oggetto di attenzione della magistratura contabile sono state poste in essere (fine anni ’90 – prima metà anni ’00); infatti in quella fase le coperture in IRS sono divenute inefficaci a motivo dell’anomalo ampliamento del c.d. spread che misura in punti base rispetto alla curva swap il merito di credito di un emittente. E’ a tutti noto il livello elevato che raggiunse lo spread in quel periodo.

    Si potrebbe obiettare che il MEF poteva o doveva prevedere una simile eventualità, ma questa affermazione presuppone un maggiore dinamismo nella gestione delle coperture che mal si concilia con  quelle che sono le logiche dell’amministrazione centrale dello Stato; infatti un’attività di trading sarebbe difficilmente giustificabile agli occhi del contribuente.

  • La clausola di Early Termination di cui la direzione del Tesoro si mostrava non a conoscenza è illecita? La risposta anche in questo caso è senz’altro negativa. In generale le controparti di un derivato hanno sempre la facoltà di chiedere l’una all’altra di liquidare il valore di mercato del derivato (c.d. unwinding), anche in assenza di tale clausola. Nel caso di specie tale clausola si configurava come Additional Termination Event (ATE); questa normalmente prevede che “entrambe” le parti (mutual clause) possano richiedere la rescissione del contratto allorché il merito di credito di una di esse, espresso dal rating, scenda al di sotto di determinate soglie, che è quanto avvenuto nel 2011-2012 per lo stato italiano.

    E’ anche ragionevolmente probabile che, pur in presenza di una riduzione del rating, la banca Morgan Stanley non avrebbe (come sembra documentato in precedenza) richiesto la liquidazione della posizione se, per conseguenza dei più stringenti requisiti regolamentari connessi alla gestione del rischio controparte, il valore dell’esposizione rispetto alle linee di credito allocate allo stato italiano non fosse “esploso” per effetto del suddetto ampliamento dello spread.

    Clausole di questo tipo sono molto usate nei derivati OTC e sono da tempo contemplate nei Contratti Quadro (Master Agreement) promossi dall’ISDA e adottati da tutti gli operatori dei mercati finanziari internazionali. Pertanto a meno che non si provino comportamenti fraudolenti penalmente rilevanti, appare velleitaria la richiesta dell’autorità giudiziaria italiana di mettere in discussione l’applicazione di questi standard con le controparti.

    Peraltro l’autorizzazione al MEF (art. 1 comma 387 della legge di stabilità 2015) a “stipulare accordi di garanzia bilaterale in relazione alle operazioni in strumenti derivati” ovvero di fornire (e ricevere) collaterale (tipicamente titoli di stato di elevata qualità di credito) a fronte del valore dei derivati in portafoglio dovrebbe significativamente ridurre le circostanze di applicazione di una clausola siffatta in futuro.

  • Il Dipartimento del Tesoro ha capacità, competenze e strumenti per il monitoraggio del valore, del rischio e capacità previsive atte a definire le più appropriate strategie di copertura? Su questo sappiamo molto poco. Sarebbe senz’altro interessante avere maggiori dettagli in merito alle valutazioni effettuate dall’autorità inquirente, per poterne apprezzare la qualità e la ragionevole fondatezza delle conclusioni proposte.

  Certo osserviamo che tutte le grandi banche italiane hanno investito risorse professionali e tecnologiche cospicue nel rafforzamento delle strutture di Risk Management.

  La Corte dei Conti riporta (si veda [11]) che:

–  le dotazioni organiche delle strutture preposte alla gestione del debito pubblico non si sono rivelate adeguate, sia in termini numerici che di professionalità;

–  il sistema di valutazione dei rischi finanziari era incompleto, in quanto non considerava o non monitorava alcune tipologie di rischio ed era effettuato con risorse strumentali inadeguate.

 Le preoccupazioni a questo proposito sono legittime, ma un’informativa ampia su questi temi non è necessariamente raccomandabile, in considerazione dei pericolosi riflessi reputazionali. Le    banche sono molto attente a rilasciare informazioni di questo tipo.

  • Deve essere data ampia informativa (disclosure) al pubblico delle posizioni in derivati detenute dall’amministrazione centrale? Si osserva a tal proposito come di recente il Consiglio di Stato con sentenza del 12 agosto abbia negato le istanze di alcuni giornalisti volte ad acquisire queste informazioni. E’ altresì vero che anche le banche nei loro bilanci non forniscono molti dettagli e certamente sono anche esse entità di interesse pubblico visto che tra l’altro raccolgono e gestiscono i nostri risparmi. Infine anche la normativa nota come European Markets Infrastructure Regulation (EMIR) n. 648/12, che ha creato i c.d. trade repositories (archivi di dati sulle transazioni in derivati OTC cui contribuiscono tutti gli attori di mercato), ha previsto l’accesso ai dati analitici solo per le autorità di supervisione e controllo, mentre ad un platea più ampia è consentito solo di estrarre dati in forma aggregata, ad esempio per tipo prodotto, valuta, asset class, ecc.

    In merito alla trasparenza su queste operazioni esiste un trade off difficile da comprendere fino in fondo tra un appropriato controllo sull’attività in derivati svolta dal MEF e le possibili conseguenze negative sulla capacità negoziale dello stesso con le controparti di mercato e quindi sulla capacità del MEF di conseguire gli obiettivi assegnati di riduzione della spesa in interessi.

    Si è assistito negli anni ad un graduale costante ampliamento del set informativo, ma probabilmente si può fare di più.

  • Conflitti di interesse. Questo è senz’altro uno dei temi più spinosi. Come sono scelte le controparti, come si verifica se i valori dei contratti negoziati sono come si dice “fair”? Si fanno valutazioni di merito ad esempio mettendo in competizione le banche controparti o si applicano altre logiche, ad esempio connesse alla necessità di assicurare il collocamento del debito pubblico? Le banche applicano regole molto stringenti sul processo di selezione dei fornitori (ovviamente anche finanziari),  sul controllo sulle procedure, sui limiti e massimali da verificare, sulla disclosure sulle operazioni in potenziale conflitto.

  Questo è forse il punto più debole sul quale appropriate linee guida potrebbero essere emanate.

Certamente la circostanza più volte osservata come alti dirigenti del MEF abbiano assunto importanti e ben retribuite posizioni nell’ambito di molte banche di investimento internazionali potrebbe    essere almeno limitata e comunque attentamente disciplinata.

Riferimenti:

[1] R. Brunetta (2015), “Trenta domande sui derivati che fanno tremare il Paese”, IL GIORNALE, luglio 2015.

[2] Ragioneria Generale dello Stato (2011), ”La Spesa dello Stato dall’Unità d’Italia”.

[3] http://www.dt.tesoro.it/it/debito_pubblico/dati_statistici/principali_tassi_di_interesse/

[4] D. Colombo [2016], “Cala la spesa per interessi, costo delle emissioni allo 0,70%”, IL SOLE 24ORE, luglio 2016.

[5] A. Custodero e W. Galbiati (2016), “Scandalo derivati, Corte conti convoca Morgan Stanley”, La Repubblica, settembre 2016.

[6] http://www.dt.tesoro.it/it/debito_pubblico/dati_statistici/

[7] Audizione del Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio nell’ambito dell’indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, maggio 2015

[8] http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/25/derivati-sul-debito-nel-2015-perdite-per-68-miliardi-e-le-privatizzazioni-del-governo-serviranno-per-coprire-il-buco/2668894/

[9] Rapporto sulla gestione del debito pubblico 2015, luglio 2016

[10] http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-04-23/italy-is-euro-area-s-biggest-swap-loser-after-deals-backfired

[11] Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario presentata dalla Procura Regionale della Corte dei Conti del Lazio, marzo 2016

[12] V. Carlini (2015), “Cinque miliardi di interessi in meno nel 2015”, IL SOLE 24ORE, settembre 2015.

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