Come l’esperienza tedesca può aiutare il varo della bad bank
di Carlo Milani

Set 18 2015
Come l’esperienza tedesca può aiutare il varo della bad bank <small><small><I> di Carlo Milani </I></small></small>

Executive summary
Dopo molti mesi di dialogo tra le autorità italiane e quelle europee l’accordo per il varo della bad bank non è stato ancora trovato. Prendendo spunto dal meccanismo ideato in Germania nel 2009 si potrebbe superare questa impasse.

 Nonostante i molteplici incontri tra Ministero dell’Economia, Banca d’Italia e gli uffici della Commissione Europea, e in particolare quelli della commissaria danese alla concorrenza  Margrethe Vestager, il progetto della bad bank, ovvero del veicolo finanziario incaricato di acquistare dalle banche i crediti non più esigibili, stenta ancora a partire. Lo scontro riguarda in particolare la valutazione delle sofferenze: se valutate a prezzo di mercato la bad bank non avrebbe alcuna utilità, va quindi definito un algoritmo di calcolo per stabilire un prezzo fair. Per la Commissione la differenza tra questo prezzo e quello di mercato costituisce un aiuto di Stato, che pertanto richiederebbe prima la partecipazione alle perdite dei creditori bancari (azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre il limite dei 100 mila euro). Non sembrano funzionare gli sforzi italiani per far comprendere che l’intervento avrebbe la funzione di rimettere in moto il mercato dei crediti cartolarizzati (pressoché scomparso dall’inizio della crisi) e non tanto quello di sostenere i bilanci delle banche. Il ritardo con cui i Governi succedutisi negli ultimi anni hanno abbracciato questa iniziativa, la ritrosia con cui le banche hanno ammesso l’esistenza di un problema sistemico sulla qualità dei finanziamenti (Barucci e Milani, 2015) e il non brillante giudizio ottenuto dagli istituti di credito domestici in occasione degli ultimi stress test, spingono probabilmente la Commissione a non credere pienamente in questa tesi.

L’esperienza tedesca

Un’ipotetica strada potrebbe essere quella di ricalcare l’intervento attuato dalla Germania quando, nel 2009, varò un veicolo finanziario destinato ad acquisire dalle banche tedesche private (per le banche pubbliche tedesche si è invece adottato un meccanismo simile a quello poi utilizzato in Irlanda e Spagna, con l’acquisto da parte della società veicolo dei titoli a prezzi concordati) i cosiddetti titoli “spazzatura”, costituiti per lo più da crediti cartolarizzati (si veda per maggiori dettagli Deutsche Bundesbank, 2009, e Freshfields Bryckhaus Deringer, 2009). Per evitare che il contribuente tedesco sostenesse il costo di questa operazione il meccanismo che è stato ideato prevede che la società veicolo acquisisca i titoli spazzatura al prezzo iscritto in bilancio, a cui eventualmente applicare uno sconto del 10%, emettendo in cambio obbligazioni garantite dallo Stato. Queste obbligazioni sono però senza scadenza e vengono interamente rimborsate solo quando la società veicolo avrà recuperato per intero il valore dei titoli ricevuti in gestione, eventualmente reinvestendo le somme recuperate in altre attività finanziarie.

Il vantaggio per gli istituti di credito è quello di sostituire un asset illiquido, come le sofferenze, con obbligazioni del veicolo che, avendo la garanzia statale, possono essere utilizzate come collaterale presso la BCE per ricevere liquidità all’occorrenza. Inoltre, per i criteri sui requisiti patrimoniali le sofferenze determinano un alto assorbimento di capitale, stante la loro elevata rischiosità. Sostituendoli con i titoli del veicolo si liberano capitali che possono essere utilizzati per incrementare l’attività creditizia e sostenere imprese e famiglie meritevoli di finanziamento.

Applicazione all’Italia

In Italia un simile meccanismo potrebbe essere proficuamente adottato per il tramite della Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Supportata da società specializzate nel recupero di crediti, la CDP potrebbe integrare le attività della bad bank con quelle del Fondo Italiano di Investimento, la cui finalità è favorire la patrimonializzazione delle piccole e medie imprese e la loro aggregazione (Corsaro, 2015). Immettendo capitali freschi nelle PMI aventi buone prospettive di crescita, ma in difficoltà per aver subito l’effetto congiunto della peggiore recessione della storia italiana e del credit crunch, queste potrebbero tornare in salute, con vantaggio per l’intera economia e per la stessa bad bank, che recupererebbe più velocemente il valore delle attività gestite.

La banca che decida di partecipare a questo schema dovrebbe però pagare annualmente il costo della garanzia statale. In aggiunta, e ipotizzando che il recupero del valore di cessione delle sofferenze avvenga in un lasso di tempo molto lungo (anche 20 anni), gli istituti di credito dovrebbero accantonare riserve attingendo ai dividendi. L’ammontare da accantonare potrebbe essere stimato dalla Banca d’Italia valutando la differenza tra il valore di cessione e il valore di recupero atteso. Trascorsi 20 anni, se la società veicolo non avrà ancora recuperato il valore di acquisto, e le riserve costituite non saranno sufficienti, si utilizzeranno gli utili prodotti negli anni successi per coprire interamente la differenza.

La partecipazione al meccanismo dovrebbe essere volontaria, come anche sottolineato recentemente dal Governatore della Banca d’Italia (Visco, 2015). Utilizzando la sua moral suasion, la Banca d’Italia dovrebbe comunque spingere tutte le principali banche ad aderire, portando in questo modo a una veloce pulizia dei bilanci bancari. La “minaccia” per chi decidesse di mantenere le sofferenze potrebbe essere quella di esigere un più rapido aggiustamento dei valori iscritti in bilancio ai prezzi di mercato.

Conclusioni

Lo schema proposto in questo articolo risolverebbe l’attuale impasse con la Commissione. Infatti, per i contribuenti non ci sarebbe alcun costo, anzi sarebbero più evidenti i vantaggi in termini di minori oneri economici e sociali derivanti dal poter riportare in bonis PMI in momentanea difficoltà.

Riferimenti

Barucci E., Milani C., 2015, L’infinito dibattito sulla bad bank, FinRiskAlert.it.

Corsaro S., 2015, Le partecipazioni di CDP nei fondi, FinRiskAlert.it.

Deutsche Bundesbank, 2009, The German government’s “bad bank” model, Monthly Report.

Freshfields Bryckhaus Deringer, 2009, German Bad Bank Act in Force.

Visco I., 2015, Advancing European financial integration, Euromoney – The Italy Conference.

EIOPA on transferability of vested pension rights
di Silvia Dell’Acqua

Set 18 2015
EIOPA on transferability of vested pension rights <small><small><I> di Silvia Dell’Acqua </I></small></small>

Portability of pension rights is a major issue in EU Social-Policy: the increasing mobility of the workforce has made the issue of transferring pension rights nationally and across borders extremely relevant for many employees and in the recent past this topic has been discussed at length. Occupation pension rights can be theoretically transferred in the form of assets, vested rights or cash equivalent, but practically the latter is what is actually transferred.

Although the proposal for a Directive on improving the portability of pension rights (2005) included the right of the member to transfer his occupational pension rights to the scheme of another employer, the adopted Directive 2014/50/EU contains no provisions on transferability. It however states that Member States should endeavour to improve it, particularly when introducing new pension schemes. Up to now, Member States have been actively considering measures to foster transferability of vested pension rights and further efforts will follow the transposition of the Directive, whose deadline is 21 May 2018.

Finally, the European Commission asked EIOPA to provide inputs and advices on this topic. On the 2nd of July 2015 the Authority published a Report on “Good Practice on individual transfers of occupational pension rights” with the aim of identifying the main impediments and finding measures to overcome them as well as promoting transparency on national legal rules and market practices.

This is an overall picture of the current market situation

–       Different transfer regimes adopted in the Member States reflect various levels of importance given to the occupational pensions (coverage and amount of retirement benefits) and diverse labour markets (job turnover, dismissal law – transfers are more relevant if members change jobs more often).

–       Where transfers are permissible, in the majority of Member States there are legislative rules for the calculation of transferred values. Usually the same rules apply for both domestic and cross-border transfers. In case of transfers between Defined Contribution plans (plans where the amounts to be paid as retirement benefits are determined though a formula based on employees earning/years of service), the transfer value typically represents the cash value of the member’s holdings in the scheme; while for transfers where at least one of the schemes involved has a Defined Benefit plan (plan where the sponsor has the only duty to pay a specific contribution to the plan on the employee behalf, usually expressed as a percentage of his salary), certain actuarial assumptions are followed to establish the monetary equivalent of the vested rights.

–       Differences among tax regimes and tax treatment of transfers/capital pay-out are one of the major impediments, especially for cross-border transfers. Although transfers are usually not subject to tax, for cross border transfers there might be issues of double taxation due to the substantial differences between Member States’ tax treatment (TEE/EET/ETT approach). To address this problem, double taxation agreements exist in a number of Member States, primarily in the EEA countries.

EIOPA did not provide any advice on whether a transfer may be preferable to the simple preservation of dormant rights: any choice should consider all relevant specificities of the case, such as the personal circumstances of the pension rights holder, the nature of the transferring and receiving schemes, the applicable national laws. The Authority identified the following list of Good Practices, which have to be interpreted as principles to be followed rather than legally binding rules: some of them may not be readily applicable in certain Member States because of the nature of the individual legal framework.

1.     Good Practice 1: Voluntary transfer agreements

Voluntary agreements can improve transfers especially if the statutory regulation is vague or does not exist at all: relevant stakeholders (pension institutions, social partners etc.) should agree on a common regime for transfers in line with the statutory framework (supervisory law, data protection, tax law, antitrust law etc.).

2.     Good Practice 2: Objective criteria for reasons to suspend a transfer

To safeguard the interest of the scheme member and its right to transfer, any reasons foreseen in the transfer regime to suspend a transfer should be clearly formulated in advance and accompanied by objective criteria indicating when these are met. Such reasons could be the financial sustainability of the schemes involved and/or other negative impacts for the remaining scheme members. In fact, when transfer amounts are high or concentrated in a short period of time and not sufficient assets are transferred to cover the associated rights (due to different actuarial methods used by schemes involved), the receiving scheme can become underfunded and may not be able to pay benefits to remaining scheme members.

3.     Good Practice 3: Equal treatment of domestic and cross-border transfers

Cross-border transfers should not be subject to stricter regulations/requirements than domestic transfers are. Generally Member States set the same requirements, in line with the “single market philosophy”.

4.     Good Practice 4: Timeframes for in- and out-transfers

Transferring scheme should allow for a sufficiently long period to request an out-transfer and any limit should start when there is an actual possibility to transfer. Scheme members should be allowed to request an in-transfer of their supplementary pension rights at any time during their membership in the new scheme/pension institution. Too strong limitations usually lead to scheme members detriment

5.     Good Practice 5: Content of information to scheme member

To make an active decision whether to transfer, scheme members should be informed about all the relevant aspects: transfer value, transfer options, procedures, timeframes, impact of the transfer on benefits, tax implications and other specific risk coverages, especially the ones which may be lost as a result of the transfer. Reductions and costs associated with a transfer should be clearly stated as well to give a full picture of the returns on the pension products. Information should be correct, understandable, not misleading and disclosed based on a “layering approach” (key questions should be answered in the first layer, further questions in the deeper ones) as, from the latest insights of behavioural economics, people have limited time and motivation to be involved in retirement planning.

6.     Good Practice 6: Automatic delivery of information

To prevent members to miss the deadlines to transfer their rights, they should be automatically provided with the relevant information upon the termination of the employment relationships.

7.     Good Practice 7: Online tool/portal to gather pension information

Scheme members should be provided with an access to an online tool/portal where relevant and maybe additional information concerning their transfers are recorded. EIOPA may explore further this GP as part of a wider project, looking at communication channels and tools used to convey pension information.

8.     Good Practice 8: Access to advice

Not all scheme members are sufficiently financially literate to understand and assess information and may benefit from personalised advices (implications of transferring, comparison of benefits). Schemes should inform scheme members about the possibility and/or need to get specific advice.

9.     Good Practices 9: Charges, if any, to reflect the actual work necessary

In cases where the scheme member is charged for the transfer, the charges should reflect the actual work necessary to carry out the transfer. This does not preclude lump sum charges as long as they reflect actual costs. The large differences among Member States in the amount charged are in fact related to the complexity of the transfer rather than to the transferred amount.

10.  Good Practice 10: Direct communication between the schemes on transfer execution

Regarding the transfer execution, where possible, schemes should communicate directly with each other instead of via the member; the member should communicate only with one of the two schemes. If it wasn’t like that, there would be a disincentive effect on members seeking to transfer their pension rights and there would also be an increase in the costs associated with transferring, with an indirect effect on their affordability.

11.  Good Practice 11: Reasonable timescales for the execution of transfers

The time taken to complete transfers can be regarded as an impediment to their efficient and effective processing. Timescales should be defined and reasonable compared to the work involved in completing a transfer; they should be appropriate for the process and tasks required without unnecessary delays.

12.  Good Practice 12: Identification of receiving scheme especially for cross border transfers

There should be a mechanism (e.g. a register) or other practices (e.g. questionnaires, checklists of criteria) to help the transferring scheme to identify with legal certainty whether the receiving scheme meets the necessary criteria to be eligible to receive a transfer, especially for cross-border transfers. In fact, although the check is straightforward for most of the domestic transfers, it can be difficult for cross-border cases, because registers of pension institutions tend to be in local foreign language and may not contain sufficient details.

13.  Good Practice 13: Safeguarding the right to transfer over right to capital pay-out

Looking at the current market practice, it seems that a capital pay-out may even figure as an impediment to transfer (besides of being an alternative to transfer): following the 2014/50/EU Directive, this practice shall cease to exist.

The scheme members’ rights to transfer should be prioritized over the right of the scheme to (unilateral) capital pay-out. In case of the pay-out of small pension pots the interests of the pension institution regarding a cost efficient administration and the interest of the member to build up a pension has to be balanced. If members bear the costs and charges for the transfer/capital pay outs, their interests should prevail. In an automatic transfer regime, members should have the right to reject the transfer.

EIOPA did not included in the list the so called “pot follows member” approach: an automatic transfer of small pension entitlements which are disadvantageous to be kept by the scheme member’s perspective.

Le partecipazioni di CDP nei fondi
di Stefano Corsaro

Set 10 2015
Le partecipazioni di CDP nei fondi <small><small><I> di Stefano Corsaro </I></small></small>

Una delle modalità con cui Cassa Depositi e Prestiti (CDP) offre sostegno all’economia sono i Fondi da essa partecipati o controllati. Ciò che differenzia l’attività così portata avanti dal resto della strategia di CDP (su cui ci siamo già soffermati, si veda Corsaro, 2015) è lo scopo perseguito. L’obiettivo di FRI, Export Banca e dei plafond è infatti ridurre la mancanza di credito (credit crunch); i Fondi, invece, tentano di affievolire la mancanza di capitale proprio (equity crunch).

Di seguito analizzeremo i casi del Fondo Italiano di Investimento (FII) e del Fondo Strategico Italiano (FSI).

IL FONDO ITALIANO DI INVESTIMENTO

Il Fondo Italiano di Investimento è un fondo mobiliare chiuso, creato nella seconda metà del 2010 e gestito da una SGR, le cui quote sono equamente suddivise tra CDP, MEF, Confindustria, ABI, Monte dei Paschi, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Istituto Centrale delle Banche Popolari – la quota di CDP è dunque del 12,5%. Nato con una patrimonializzazione di 1 miliardo di euro e con un obiettivo di 3 miliardi, il Fondo ha attualmente una dimensione di 1,2 miliardi (per poter entrare nel capitale dello stesso, l’investimento minimo è di 100 milioni). Non si tratta di uno strumento unico in Europa: esempi in tal senso sono Jeremie, gestito dallo European Investment Fund; il Fonds Stratégique d’Investissement francese, creato tra il 2008 e il 2009 e attivo per imprese di tutte le dimensioni; il Vækstfonden danese, incentrato principalmente su società di nuova costituzione e fondi di venture capital.
Il Fondo italiano è attivo per le piccole e medie imprese e ha il duplice obiettivo di favorire la patrimonializzazione delle Pmi e la loro aggregazione, così da creare un nucleo di ‘medi campioni nazionali’ capaci di competere sui mercati internazionali, senza perdere la flessibilità tipica delle aziende di minore dimensione. Gli investimenti durano 12 anni, 5 per l’investimento e 7 per il disinvestimento (i tempi sono prorogabili, rispettivamente, di 1 e 2 anni): si tratta di periodi più lunghi rispetto ai fondi di private equity.

Diverse modalità di intervento, suddivise in dirette e indirette, sono possibili.

Gli interventi diretti si strutturano in quattro linee:

  1. equity: il FII può entrare nel capitale sociale, con quote perlopiù di minoranza, di aziende con fatturato indicativamente compreso tra 10 e 250 milioni (all’apertura del Fondo, riferimento erano le imprese con fatturato tra 10 e 100 milioni), per un periodo di 5-7 anni. Al fine di garantire la patrimonializzazione delle aziende, senza ridurne il controllo da parte degli azionisti, possono essere acquistate azioni privilegiate, invece di titoli ordinari;
  2. mezzanine finance. In questo caso, FII acquisisce debito subordinato, il cui rimborso integrale avviene dopo il rimborso dei titoli senior, e un warrant (o opzione call), con cui l’ingresso in azienda è condizionato a un aumento pre-determinato del valore della stessa. Il vantaggio di questo strumento è la fornitura di equity senza aumentare nell’immediato il debito (nel caso di acquisizione di debito subordinato) o senza diluire le quote di partecipazione degli altri azionisti (nel caso di warrant o opzione call);
  3. obbligazioni convertibili o warrant: esse prevedono la possibilità di entrare nel capitale sociale dell’impresa non immediatamente, ma se avviene un aumento di valore dell’impresa stessa. I casi 2 e 3 sono adatti in caso di aziende fortemente indebitate;
  4. prestiti partecipativi: della durata di 5-10 anni, essi prevedono che parte del rendimento sia collegato ai risultati ottenuti dalla società finanziata. I prestiti partecipativi sono utilizzati per aziende con ambiziosi piani di crescita nel medio periodo – uno dei target principali del Fondo.

Gli investimenti indiretti prendono la forma di:

  1. coinvestimento, effettuato assieme ad altri fondi di private equity, con cui si concludono accordi al fine di diminuire i costi fissi;
  2. fondi di fondi: in questo caso, il FII fornisce equity, garanzie o prestiti ad altri fondi

In entrambi i casi, è necessaria una esplicita condivisione di obiettivi tra il FII e gli altri fondi partecipanti (CDP, 2015a; CDP, 2015b; FII, 2009; Bassanini, 2015).

Tra il 2010 e il 2014, il Fondo ha compiuto investimenti per un totale di 354 milioni in 32 società ed è entrato in 20 fondi per un ammontare di 408 milioni. Il numero di imprese in cui al 31 dicembre il FII ha interessi di qualunque natura è pari a 127. Lo scorso anno il Fondo ha anche allargato il suo perimetro di attività, con l’apertura del Fondo Venture Capital e del Fondo Minibond. La dimensione di tali fondi di fondi è di 50 e 250 milioni di euro; l’obiettivo è di raggiungere una dotazione di 200 e 500 milioni. Il primo si occuperà di favorire la nascita e l’espansione di start up innovative; il secondo aiuterà la creazione di fondi di minibond, per supportare le Pmi – oggetto dell’operazione sono circa 33000 aziende con ricavi tra 5 e 250 milioni (CDP, 2015b; CDP, 2015c).

IL FONDO STRATEGICO ITALIANO

Il FSI è stato creato nel 2011 con una dotazione di 4,4 miliardi di euro e con l’obiettivo di raccogliere 7 miliardi tramite l’ingresso di investitori istituzionali; è controllato all’80% da CDP (il 2,3% è detenuto dalla controllata Fintecna) e con una quota di minoranza del 20% di Banca d’Italia.  Il capitale attualmente disponibile per gli investimenti ammonta a 5,1 miliardi di euro: esso viene impiegato per acquisire quote in imprese in equilibrio economico-finanziario e che presentano potenzialità per competere in ambito internazionale, buone prospettive di sviluppo e per la creazione di ‘poli’ di eccellenza. L’investimento avviene preferibilmente in capitale primario; quando un aumento di capitale non è possibile, il Fondo investe in quote di azioni già esistenti. Le quote acquisite sono solitamente di minoranza (con possibili deroghe per aumentare la concorrenza e gestire squilibri temporanei) al fine di non alterare le dinamiche di mercato e di rimanere un ‘investitore non gestore’. L’importo minimo degli investimenti è fissato a 50 milioni di euro: sono previsti limiti di concentrazione per settore. Come la CDP, anche il FSI compie investimenti di lungo periodo (con l’obiettivo di ottenere rendimenti di mercato), così da completare i finanziamenti bancari di breve periodo e favorire lo sviluppo delle principali imprese nazionali.
Oggetto di interesse del Fondo sono le aziende di ‘rilevante interesse nazionale’, ovvero operanti in settori strategici: difesa, sicurezza, infrastrutture, trasporti, comunicazioni, energia, assicurazioni e intermediazione finanziaria, ricerca e innovazione ad alto contenuto tecnologico, pubblici servizi, turistico-alberghiero, agroalimentare e della distribuzione, gestione dei beni culturali e artistici. Il criterio settoriale può essere sostituito da un parametro dimensionale o di sistema: nel primo caso, sono considerate strategiche le società, attive in qualunque settore, con un fatturato non inferiore a 300 milioni e almeno 250 dipendenti; se, infine, le imprese presentano importanti indotto e esternalità positive, il fatturato e il numero di dipendenti minimi richiesti diminuiscono del 20%. Le aziende che soddisfano i requisiti suddetti sono 2186.

Il FSI sta acquisendo un ruolo di primaria importanza nelle attività di CDP e non solo. Esso ‘rappresenta oggi il principale veicolo di attrazione di capitali esteri da investire nel tessuto imprenditoriale italiano. FSI si pone, infatti, come catalizzatore di risorse finanziarie destinate alle imprese strategiche e in questo senso può essere considerato strumento di una nuova politica economica del Paese’ (CDP, 2015c, p. 21). Il Fondo ha sinora concluso accordi internazionali per circa 3 miliardi, garantendo nella maggior parte dei casi che il controllo dell’azienda rimanesse nel nostro paese. Tra il 2013 e il 2014, sono inoltre stati approvati 35 investimenti in aziende di grandi dimensioni, e sono entrate nel portafoglio del Fondo 10 aziende, per un esborso di 2,7 miliardi – sono tuttora parte delle attività del Fondo 8 aziende, per un investimento complessivo di 2,1 miliardi di euro.
Gli investimenti approvati hanno seguito nella maggioranza dei casi il criterio settoriale. I loro obiettivi sono stati molteplici: creazione di infrastrutture strategiche; potenziamento della filiera produttiva; innovazione; internazionalizzazione; quotazione in Borsa; aumento degli occupati. In alcuni casi, sono nati nuovi stabilimenti o ne sono stati acquisiti di esistenti all’estero.
Le 8 aziende in portafoglio di FSI hanno grande rilevanza da un punto di vista quantitativo (il loro indotto contribuisce allo 0,2% del valore aggiunto nazionale) e per la loro solidità. Analizzando, infatti, la crescita di MOL e ricavi delle aziende in cui il Fondo ha investito, emerge che, nel triennio 2011-2013, 7 delle 8 imprese partecipate dal FSI hanno avuto tassi di crescita di entrambi gli indicatori superiori al settore di appartenenza. Si stima, inoltre, che l’attività del Fondo abbia contribuito a un aumento dell’occupazione diretta e indiretta compreso tra il 9% e il 15%. Tra le principali finalità rimane da potenziare la capacità di aggregazione, al fine di favorire la competitività internazionale (CDP, 2015c; FSI, 2015a; FSI, 2015b; Bassanini, 2012; Bassanini, 2015).

RUOLO E POTENZIALITÀ DEI FONDI

La creazione di Fondi di investimento di proprietà pubblica ha rappresentato un notevole cambiamento nel ruolo dello Stato nell’economia: alla classica dicotomia tra lo Stato regolatore e lo Stato imprenditore si è infatti sostituito lo Stato investitore, che impiega i propri fondi per finalità pubbliche, ma non interviene nelle decisioni circa il loro impiego, lasciate a logiche private. Coerentemente con quanto detto, i Fondi non salvano imprese in difficoltà, ma le aiutano a svilupparsi – coerentemente, il FSI richiede che le aziende siano in equilibrio economico-finanziario ed entrambi hanno come obiettivo la creazione di un nucleo di ‘campioni nazionali’ (Corsaro, 2015; CDP, 2015c).
Le attività di FII e FSI sono parzialmente complementari, in quanto il primo si occupa di piccole e medie imprese, il secondo di aziende di grandi dimensioni. Potrebbe dunque essere utile semplificare gli strumenti normativi per i finanziamenti alle imprese – anche con riferimento ad altre forme di finanziamento pubblico -, diminuendo enti e norme preposte a tale obiettivo. I Fondi potrebbero inoltre essere ulteriormente capitalizzati (il Fonds Stratégique d’Investissement francese ha una dotazione di 20 miliardi di euro, FII e FSI si fermano a un terzo).

 BIBLIOGRAFIA

Bassanini, Franco. La Cassa Depositi e Prestiti nell’economia sociale di mercato. Cassa Depositi e Prestiti. 2012.

Bassanini, Franco. La politica industriale dopo la crisi: il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti. Astrid Rassegna, n.7. 2015.

Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Crescere per competere. Il caso del Fondo Strategico Italiano. Quaderni, n.1. 2015c.

Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Fondo Italiano di Investimento (FII). Imprese. 2015a.

Corsaro, Stefano. La nuova Cassa Depositi e Prestiti e il sostegno alle imprese. FinRiskAlert.it. 2015.

Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Relazione finanziaria annuale 2014. 2015b.

Fondo Italiano di Investimento (FII). Fondo Italiano di Investimento per le Piccole e Medie Imprese. 2009.

Fondo Strategico Italiano (FSI). Chi siamo. 2015a.

Fondo Strategico Italiano (FSI). Come operiamo. 2015b.

 

Il Decreto di attuazione dell’accordo tra Italia e Stati Uniti sulla normativa FATCA
di Giulia Mele

Set 10 2015
Il Decreto di attuazione dell’accordo tra Italia e Stati Uniti sulla normativa FATCA <small><small><I> di Giulia Mele </I></small></small>

Il 13 agosto 2015 è stato pubblicato il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze (il “Decreto“) di attuazione della legge n. 95 del 18 giugno 2015, di ratifica dell’Accordo intergovernativo tra il governo italiano e quello degli Stati Uniti d’America finalizzato a migliorare la compliance fiscale internazionale e ad applicare la normativa FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act).

Prima di passare alla disanima dei contenuti del Decreto sembra opportuno richiamare brevemente la natura e la ratio della disciplina FATCA.

Le disposizioni del FATCA sono state adottate nell’ambito dell’Hiring Incentives to Restore Employment (HIRE) Act e completate  dagli orientamenti emanati dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti (i “FATCA Regulations”).

Obiettivo conclamato della disciplina è quello di individuare e disincentivare l’evasione fiscale offshore da parte dei cittadini statunitensi o dei residenti negli Stati Uniti. In particolare, si impongono determinati obblighi alle Foreign Financial Institution (le “FFI“) che detengano (e intendano continuare a detenere), in conto proprio o di terzi, rapporti finanziari con soggetti di origine statunitense. Esse dovranno, infatti, sottoscrivere un apposito accordo con l’amministrazione fiscale statunitense (l’Internal Revenue Service o “IRS“) in base al quale le FFI saranno tenute a verificare se tra i propri clienti vi siano contribuenti americani e, in tal caso, ad attivare uno scambio informativo con l’IRS. Nel caso in cui tali obblighi di scambio siano disattesi è prevista l’imposizione di una ritenuta alla fonte (pari al 30% dell’importo corrisposto).

L’Italia, insieme ad altri Stati Membri dell’Unione Europea, si è impegnata a recepire la normativa FATCA nell’ ordinamento sottoscrivendo, il 10 gennaio 2014, un accordo intergovernativo (l”IGA Italia“) basato sul principio di reciprocità dello scambio dei flussi informativi. Tale accordo è stato ratificato dalla sopracitata legge n. 95 del 18 giugno 2015 (la “Legge di Ratifica“).

In base all’IGA Italia, da un lato, le istituzioni finanziarie italiane sono tenute ad identificare i titolari dei conti correnti che risultino aperti presso di esse da investitori statunitensi e a condividere con gli USA le informazioni rilevanti e, dall’altro, gli Stati Uniti sono tenuti a comunicare all’amministrazione finanziaria italiana gli elementi informativi relativi ai conti correnti detenuti nel loro territorio da residenti italiani.

Al fine di assicurare l’effettività dello scambio delle informazioni, la Legge di Ratifica ha introdotto disposizioni concernenti gli adempimenti cui sono tenute le istituzioni finanziarie italiane ai fini dell’attuazione del suddetto obbligo di scambio. Tali disposizioni consistono, inter alia, negli obblighi (i) di adeguata verifica ai fini fiscali e di acquisizione di dati sui conti finanziari e su taluni pagamenti (art. 5 della Legge di Ratifica) e (ii) di comunicazione all’Agenzia delle Entrate degli elementi informativi acquisiti (art. 4 della Legge di Ratifica).

In questo contesto, la Legge di Ratifica attribuisce al Ministro dell’Economia e delle Finanze il compito di: (i) stabilire le regole tecniche per la rilevazione, la trasmissione e la comunicazione all’Agenzia delle Entrate delle informazioni relative ai conti finanziari ed ai pagamenti corrisposti da soggetti non residenti ovvero da cittadini statunitensi ovunque residenti; (ii)  individuare le procedure di adeguata verifica ai fini fiscali; (iii) disciplinare l’applicazione del prelievo alla fonte; (iv) stabilire la tempistica degli obblighi di comunicazione tra istituzioni finanziarie.

In linea con quanto previsto dalla Legge di Ratifica il 6 agosto u.s. il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha emanato il Decreto, composto da 11 articoli più un allegato (l'”Allegato“), e l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato un provvedimento contenente le disposizioni attuative del Decreto medesimo. Tali provvedimenti, quindi, completano il quadro normativo disegnato dall’IGA Italia e recepito dalla Legge di Ratifica per l’implementazione della normativa FATCA.

Di seguito una breve disamina dei principali contenuti del Decreto.

Ambito di applicazione

Il Decreto, innanzitutto, individua i soggetti tenuti alle comunicazioni dovute all’Agenzia delle entrate in aggiunta a quelli elencati nell’art. 4, comma 1 della Legge di Ratifica (i.e. banche, società di intermediazione mobiliare, Poste Italiane S.p.A. società di gestione del risparmio, società finanziarie e società fiduciarie residenti nel territorio dello Stato Italiano).

A tal fine, preliminarmente, sono state individuate le categorie di intermediari interessati dalla normativa FATCA attraverso la definizione delle nozioni di “istituzione di custodia”, “istituzione di deposito”, “entità di investimento”, impresa di assicurazione specificata” e “holding company“.

Inoltre, per specificare il perimetro delle istituzioni italiane interessate – le quali devono rientrare in una delle categorie sopra elencate – viene individuata la nozione di “istituzione finanziaria italiana” (c.d. IFI), comprendente (i) qualsiasi istituzione finanziaria residente in Italia (ad esclusione delle stabili organizzazioni di tale istituzione finanziaria situate al di fuori del territorio dello Stato) e (ii) qualsiasi stabile organizzazione di un’istituzione finanziaria non residente in Italia, se tale stabile organizzazione è situata in Italia.

Le IFI, per ragioni sistematiche, sono distinte in due sottocategorie ovvero le istituzioni finanziarie tenute alla comunicazione (c.d. “IFI reporting“) e quelle non tenute alla comunicazione.

Le IFI reporting sono tassativamente elencate al numero 7.1. dell’art. 1, comma 1 del Decreto nel quale sono ricomprese, inter alia, le banche, le società di gestione del risparmio, gli istituti di moneta elettronica e gli istituti di pagamento, nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio in possesso dei requisiti previsti per le entità di investimento.

Due diligence fiscale

L’art. 2 del Decreto stabilisce che le IFI reporting devono applicare le procedura di adeguata verifica in materia fiscale (due diligence) per identificare i conti finanziari oggetto di comunicazione. Le procedure di adeguata verifica che le IFI reporting dovranno porre in essere per determinare il FATCA status del titolare del conto sono indicate nell’Allegato al Decreto.

In particolare, la sezione I, al paragrafo A dell’Allegato, contiene una parte definitoria che distingue tra i conti “nuovi”, ossia aperti a partire dal 1 luglio 2014, e “preesistenti”, ovvero quelli già esistenti alla data del 30 giugno 2014.

Inoltre, tanto per i conti “nuovi” che per quelli “preesistenti”, l’Allegato fissa delle soglie di rilevanza al di sotto delle quali non sussiste l’obbligo di verifica, identificazione o comunicazione. Resta ferma, in ogni caso, la facoltà per l’istituzione finanziaria italiana di espletare le procedure di adeguata verifica su tutti i conti, indipendentemente dal superamento della soglia di rilevanza.

Tali distinzioni valgono a graduare l’intensità delle procedure di adeguata verifica, contemperando le opposte esigenze di mitigare gli oneri gravanti sulle istituzioni finanziarie italiane e arginare il rischio di evasione da parte di contribuenti statunitensi.

Sono, inoltre, definite le procedure antiriciclaggio, più volte richiamate nell’ambito della due diligence ai fini FATCA, intendendosi per tali quelle previste dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, nonché dai provvedimenti della Banca d’Italia e del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Inoltre, nell’Allegato sono elencati una serie di documenti, definiti “prove documentali”, accettati nell’ambito della due diligence con riferimento sia alle persone fisiche che giuridiche.

Il prelievo alla fonte

L’art. 3 del Decreto chiarisce che l’obbligo di applicare il prelievo alla fonte grava esclusivamente sulle istituzioni finanziarie italiane che, in virtù di apposito accordo concluso con le autorità fiscali statunitensi, hanno assunto la qualità di intermediari qualificati con responsabilità primaria di sostituto d’imposta statunitense (qualified intermediary with primary withholding responsability).

Le istituzioni finanziare non in possesso di tale qualifica saranno, invece, tenute a comunicare all’istituzione finanziaria che immediatamente le precede nella catena degli intermediari i dati necessari per applicare il prelievo alla fonte, ciò al fine di garantire l’applicazione del prelievo risalendo la catena degli intermediari fino ad individuare la qualified intermediary with primary withholding responsability.

Oggetto e termini della comunicazione

Il Decreto individua i dati che le IFI reporting devono inoltrare all’Agenzia delle entrate per consentire lo scambio di informazioni con la competente autorità finanziaria statunitense.

In particolare, indipendentemente dalla tipologia di conto finanziario, devono essere fornite le informazioni essenziali per uno scambio efficace, che consentano di individuare il titolare del conto e l’eventuale reddito sottratto alla conoscibilità delle autorità statunitensi. Pertanto, sono sempre inviati i dati identificativi del titolare, quali nome, denominazione o ragione sociale, indirizzo e codice fiscale statunitense (TIN – Tax Identification Number). Inoltre, devono essere trasmesse informazioni sul numero e sul saldo o valore del conto, nonché i dati identificativi dell’istituzione finanziaria italiana che effettua la comunicazione. Oneri informativi aggiuntivi sono previsti nel caso di conti di custodia e di deposito.

Con riferimento ai termini entro i quali le informazioni devono essere trasmesse all’Agenzia delle entrate, il Decreto stabilisce che lo scambio di informazioni tra autorità competenti deve avvenire entro il 30 settembre di ciascun anno solare. Pertanto, al fine di consentire all’Agenzia delle entrate di provvedere all’invio rispettando la tempistica prestabilita, il comma 4 dell’art. 5 del Decreto individua nel 30 aprile di ciascun anno il termine entro il quale le IFI reporting sono tenute a trasmettere i dati riferiti all’annualità precedente. Tale data è diretta a garantire la raccolta, il caricamento nelle banche dati preposte e una prima analisi delle informazioni, per trasmettere un dato completo e fruibile al partner internazionale.

Il Decreto, inoltre, prevede che il termine di scadenza per il primo invio dei dati debba essere stabilito con provvedimento dal Direttore dell’Agenzia delle entrate. Nel provvedimento del 7 luglio scorso tale termine è stato individuato nel 31 agosto 2015, data entro la quale, quindi, gli operatori finanziaria interessati dalla normativa FATCA dovranno inviare le informazioni sui conti finanziari concernenti l’anno 2014.

Infine, con riferimento alle modalità e le tempistiche per l’invio delle informazioni rilevanti da parte delle società di gestione del risparmio, preme rilevare come Assogestioni abbia fornito alcune precisazioni rinviando la completa disanima della normativa ad un manuale in corso di pubblicazione (i.e. FATCA: istruzioni per l’uso).

In ogni caso, anticipano i contenuti di tale manuale la circolare 84/15/C del 31 luglio 2015 e 87/15/C del 4 agosto 2015.

Le sopracitate circolari indicano come gli OICR immobiliari – il cui reddito lordo nel triennio che scade il 31 dicembre dell’anno antecedente a quello della verifica deriva in misura inferiore al 50% dall’investimento, reinvestimento o negoziazioni di “attività finanziarie” – non sono tenuti alla comunicazione.

Inoltre, per i conti finanziari fra le informazioni da segnalare vi sono i conti “preesistenti” chiusi nel secondo semestre del 2014, a condizione che entro il 31 dicembre 2014 sia stata completata la procedura di adeguata verifica in materia fiscale, all’esito della quale siano stati identificati come “conti statunitensi oggetto di comunicazione”.

Infine, gli OICR potranno avvalersi delle società di gestione del risparmio per inviare le proprie comunicazioni.

EBA: gestione delle crisi bancarie

Set 10 2015

L’EBA ha reso nota la sua Opinione su quali asset debbano essere garantiti in caso di trasferimento parziale di proprietà in seguito a una risoluzione. E’ garantita la piena protezione delle fonti consolidate di rifinanziamento, come il debito garantito, e dei mezzi di attenuazione del rischio.

Comunicato stampa
Opinione