Finalmente il fondo Atlante: sarà piccolo ma è pur sempre una bad bank
di Emilio Barucci e Carlo Milani

Apr 20 2016
Finalmente il fondo Atlante: sarà piccolo ma è pur sempre una bad bank  di Emilio Barucci e Carlo Milani

Finally (che viene tradotto dall’inglese come ‘‘alla fine’’ accompagnato spesso da un’esclamazione ‘‘era ora!’’) abbiamo una bad bank. Eh sì perché il fondo Atlante non è altro che una bad bank, ed in quanto tale non può essere che ben accolto per i motivi che abbiamo più volte ricordato su questo sito (Barucci e Milani, 2015). Il fondo avrà una dotazione di 5-6 miliardi, sarà partecipato da banche, Cassa Depositi e Prestiti, fondazioni bancarie e compagnie di assicurazioni. Fino al 70% dei fondi sarà destinato agli aumenti di capitale delle banche in crisi, il resto all’acquisto di non performing loans (NPL) delle banche (con un focus sulle sofferenze).

Vale la pena spendere due parole sul passato. La bad bank arriva con cinque anni di ritardo ed è testimone dei limiti della nostra classe dirigente e della pochezza del dibattito nostrano su questi temi. L’ex ministro Tremonti ha ragione nel ricordare che l’offerta dei ‘’Tremonti bonds’’ (obbligazioni con eventuale conversione in azioni) fu lasciata cadere nel vuoto dalla quasi totalità del sistema bancario per paura dell’ingerenza del MEF. Più nello specifico occorre ricordare almeno due episodi.

Mentre Germania, Inghilterra, Irlanda, Spagna non hanno avuto problemi a mettere sul piatto ingenti risorse per entrare nel capitale delle banche in crisi ricorrendo eventualmente al Fondo Salva Stati/banche, in Italia si sono consumati fiumi di parole sul fatto che lo Stato nel capitale delle banche era un tabù. Oggi che il MEF è il primo azionista del Monte dei Paschi, solo per effetto della conversione in azioni degli interessi dovuti sui Monti bonds, si avverte un certo disagio sia da parte del Governo che dal mondo bancario e ci si affretta a precisare che il Governo non interverrà nella gestione, come se seguire l’esito di un investimento fosse un peccato. Per tale motivo, nonché per le più stringenti regole sugli aiuti di Stato decise dalla Commissione Europea, si è arrivati a promuovere il fondo Atlante che garantirà gli aumenti di capitale di Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Bene alla buon ora ….. non sarà una nazionalizzazione ma un’operazione di ‘‘sistema’’. Speriamo sia fatta bene e comunque ce n’era bisogno. Si farà ora per le banche venete quello che non si è fatto per il Monte dei Paschi, lasciando che la terza banca del paese andasse in malora. Non un gran bel risultato. C’è almeno da augurarsi che si sia imparata la lezione e che la curiosa saldatura tra le posizioni ultraliberiste, secondo cui è bene far fallire una banca, e quelle demagogiche, secondo cui salvare una banca equivale a salvare i banchieri, non abbia più spazio in futuro.

Secondo episodio. Passata la crisi acuta della ricapitalizzazione delle banche, si è aperta la stagione della bad bank con Ministri, Banca d’Italia e sistema bancario strenui oppositori. Bene, adesso oltre alla bad bank delle quattro banche in crisi varata a fine 2015 (Etruria, Marche, etc.) ne avremo una di sistema. Il tutto avverrà cinque anni dopo le esperienze irlandese e spagnola che hanno potuto godere di vincoli europei più permissivi. Un capolavoro!

Vale la pena ricordare che gli argomenti decisivi in tutti e due frangenti sono stati il no ideologico allo Stato nelle banche e il mantra della solidità del sistema bancario italiano che è assurto a dogma fino a che non si è scontrato con gli arbitri di Francoforte. Anche l’argomento decisivo ‘‘non possiamo salvare le banche perché verremmo commissariati dall’Europa’’ ha mostrato la sua inconsistenza, siamo di fatto stati commissariati più a lungo di altri paesi, come la Spagna, che sono usciti prima di noi dalla crisi.

Demagogia e autoreferenzialità l’hanno fatta da padrone negli ultimi cinque anni, veniamo all’oggi.

Come detto, il progetto ha una sua validità. In primo luogo il fondo è privato. Non c’è dubbio che la regia sia pubblica (MEF e Banca d’Italia) e la partecipazione (rilevante ma niente affatto dominante) di Cassa Depositi e Prestiti ne è testimone, ma i fondi sono in larga misura privati (con l’unica zona grigia rappresentata dalle Fondazioni). Questo significa che il contribuente rischia assai poco e che coloro che ci mettono i soldi devono garantirsi un buon rendimento. Questa considerazione è una garanzia e dovrebbe porre l’iniziativa al riparo dall’accusa di aiuti di Stato.

I punti critici sono tre.

In primo luogo le condizioni delle operazioni messe in campo. L’iniziativa deve avere una sua redditività (si parla di un 6% che appare a dire il vero ottimistico). A questo fine occorre che l’acquisto delle azioni delle banche e dei NPL avvenga a condizioni prossime a quelle di mercato. Per definizione, accogliendo l’inoptato delle banche in sede di aumento di capitale, le azioni delle banche non saranno acquisite a condizioni di mercato. Qualche margine in più c’è invece sul fronte dei NPL. Non c’è dubbio che gli investitori privati, soprattutto operatori esteri come il fondo Apollo, cerchino di chiudere le operazioni a condizioni oltre modo penalizzanti per le banche (19% del nominale) contando sulla pressione della BCE nel ripulire i bilanci e l’assenza di operatori nostrani specializzati. Il fondo dovrebbe calmierare il mercato puntando su alcune specificità che potrebbero favorirlo nell’acquisire i crediti a prezzi superiori a quelli a sconto proposti attualmente: l’orizzonte temporale più lungo di fondi hedge o di private equity, la possibilità di arbitraggi regolamentari per le banche conferitarie dei NPL in termini di risk weights, la logica di sistema dovrebbe permettere di raggiungere una massa critica significativa che dovrebbe favorire una buona gestione/diversificazione. Un apporto potrebbe derivare anche dalla maggiore incisività del Governo nel migliorare le procedure giudiziarie per il recupero dei crediti. In definitiva, il prezzo di acquisto potrebbe aggirarsi intorno al 30% del nominale, valore inferiore rispetto al valore iscritto in bilancio (in media il 40%) ma che comporterebbe una svalutazione inferiore rispetto alle condizioni di mercato attuali.

Queste considerazioni portano con sé la possibilità di conflitti di interesse che sono tipici di operazioni di sistema, come Atlante, che vede le banche agire sia come sottoscrittori di quote (interessate a massimizzare il ritorno) sia come cedenti di NPL. Ci sarà un guadagno? Probabilmente sì per loro, ci sarà anche per gli investitori che non cedono i NPL (come le compagnie di assicurazioni)?  E’ tutto da vedere.

Il secondo punto riguarda l’ammontare dell’intervento. A fronte di sofferenze nette per 80 miliardi il fondo avrà una dotazione da destinare all’acquisto di sofferenze di circa 2/3 miliardi (di più se non ci sarà bisogno di entrare nel capitale delle banche). Sembra poca cosa. Non abbiamo ancora dettagli ma si parla di potenziare la portata di Atlante sfruttando l’effetto leva e/o concentrandosi sulle tranche junior in operazioni che coinvolgono la GACS per tranche senior. Staremo a vedere. La strada sembra comunque difficilmente percorribile: le operazioni di cartolarizzazione non possono stare in piedi se il mercato non digerisce le tranche junior. L’effetto leva può essere sfruttato se la redditività sarà appetibile e qui si torna al primo punto. Si parla di una leva pari a 10 (forse concentrandosi appunto sulle tranche junior) che appare difficile da raggiungere. Da non sopravvalutare infine l’effetto calmierazione: l’intervento di un operatore non sanguisuga porterà in generale ad una lievitazione dei prezzi dei NPL, ma l’effetto sarà limitato se l’intervento sarà modesto.

Il terzo punto critico è collegato ai precedenti due. Con poche risorse a disposizione e l’esigenza di operare a leva acquistando solo la tranche equity, difficilmente si riuscirà a gestire il portafoglio crediti con la finalità di aggregare e/o ristrutturare le aziende in difficoltà (si veda al riguardo Barucci e Milani, 2016). Un recente studio di Banca d’Italia (Carpinelli, Cascarino, Giacomelli e Vacca, 2016) ha posto in evidenza come le ristrutturazioni richiedano molti anni per poter essere portate avanti, con risultati spesso insoddisfacenti (solo il 15% delle aziende che hanno ottenuto la ristrutturazione del debito torna in equilibrio finanziario). Atlante sembra avere il difetto di essere pensato soprattutto per “sorreggere” le banche, meno le imprese finite in difficoltà. Gestire ed estrarre valore da crediti in sofferenza è un mestiere difficile.

Un’ultima osservazione. L’operazione rischia di minare la credibilità del bail-in proposto dalla normativa europea. Ha ragione il governo italiano nel chiedere da subito l’attivazione del back stop pubblico (tramite linee di credito dall’ESM), l’instabilità dei titoli azionari di tutta Europa dimostra che senza di esso, e senza la garanzia unica sui depositi bancari, la Banking Union è un’anatra zoppa. Bene, ma rimane il fatto che la necessità di promuovere il fondo Atlante mostra l’impossibilità tecnica (almeno al momento) di procedere con la risoluzione di una banca di medie-grandi dimensioni. Non ci possiamo permettere la risoluzione di due banche come quelle venete, anche per i riflessi che avrebbe sulle prime due banche del paese, Intesa e Unicredit, che si sono fatte garanti dell’aumento di capitale inoptato, e quindi creiamo un paracadute che sarà privato ma di sistema. Non una grande soluzione: di fatto un bail out non da parte dello Stato ma del sistema. Ci dobbiamo solo domandare cosa succederebbe se il Monte dei Paschi fosse chiamato a ricapitalizzare di qui a breve. In definitiva, dopo ben otto anni dal default di Lehman Brothers, e molteplici interventi sulla regolamentazione finanziaria, il sistema bancario italiano è tutt’altro che risanato. Gli esiti negativi degli stress test del 2014 (Barucci e Milani, 2014) dovevano probabilmente destare maggiore preoccupazione.

Atlante mostra che l’epoca dei salvataggi pubblici o bail out delle banche è tutt’altro che finita. Qualche riflessione andrebbe fatta sia sulle strategie portate avanti a livello nazionale sia sulla nuova regolamentazione messa in campo a livello europeo e internazionale.

Bibliografia

  • Barucci E., Milani C. (2014), La brutta pagella del comprehensive assessment, FinRiskAlert.it.
  • Barucci E., Milani C. (2015), L’infinito dibattito sulla band bank, FinRiskAlert.it.
  • Barucci E., Milani C. (2016), GACS: solo un piccolo passo verso la pulizia dei bilanci bancari, FinRiskAlert.it.
  • Carpinelli L. , Cascarino G., Giacomelli S. e Vacca V., 2016, La gestione dei crediti deteriorati: un’indagine presso le maggiori banche italiane, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza.
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