Crisi bancarie: corsi e ricorsi storici
a cura di Carlo Milani per Huffington Post

Apr 22 2023
Crisi bancarie: corsi e ricorsi storicia cura di Carlo Milani per Huffington Post

Dopo il recente dissesto della Silicon Valley Bank (SVB), e di altre banche statunitensi minori, seguito dal salvataggio della svizzera Credit Suisse e dalle turbolenze sui mercati finanziari di altri grandi player europei, in primis Deutsche Bank, molti analisti si sono interrogati se a distanza di 15 anni dal crack di Lehman Brothers siamo nuovamente di fronte ad una crisi bancaria sistemica. Ciò che da un lato rassicura è che autorità di politica monetaria e policy maker coinvolti non si sono fatti trovare impreparati come, invece, accadde nella crisi del 2007-08. In particolare, la risposta offerta dagli Usa è stata rapida ed efficace nell’arrestare un “incendio” che potenzialmente avrebbe potuto estendersi al “sottobosco” di altre banche di media dimensione. Altrettanto rapida è stata la reazione delle autorità elvetiche, anche se più discutibile nei contenuti. Infatti, la scelta di far assorbire interamente le perdite subite dal Credit Suisse ai titoli AT1, strumenti ibridi a metà tra capitale e obbligazioni, preservando invece gli azionisti, ha gettato nello scompiglio il mercato delle obbligazioni subordinate, rischiando di affossarne l’operatività nel prossimo futuro. 

La storia della precedente crisi finanziaria non sembra invece aver insegnato molto se si guarda alla radice delle cause che hanno determinato gli eventi più recenti. Probabilmente sarebbe stato possibile prevenire il crack della SVB, così come quello della Signature Bank, se queste banche non fossero state esonerate, a fronte di una riforma voluta dall’amministrazione Trump, dal rispettare i requisiti di liquidità. In altri termini, come è avvenuto nella crisi sistemica del 2007-08, anche i dissesti bancari più recenti possono essere attribuiti alla deregulation finanziaria. Similarità esistono anche in quello che possiamo considerare l’innesto della crisi. Dopo un prolungato periodo di bassi tassi d’interesse e abbondante liquidità alcuni nodi sono venuti al pettine. Come era avvenuto negli anni 2000, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, le politiche monetarie espansive adottate come risposta alla pandemia, hanno fatto pagare il conto nel momento in cui c’è stata un’inversione di rotta di queste policy. Inoltre, la politica monetaria ultra-espansiva è stata un volano per la finanza speculativa, favorita anche dalle attuali regole bancarie internazionali. Secondo i dati più recenti della Banca Centrale Europea, le banche operanti in Germania detengono complessivamente titoli finanziari opachi (cosiddetti level 2 e 3 asset, strumenti illiquidi e dal valore incerto) per quasi il 30% del totale attivo, mentre la Francia è prossima al 20%. Non stupisce quindi che gli istituti di credito tedeschi e francesi siano stati oggetto a loro volta di attacchi speculativi in questa fase.

Se il combinato disposto di deregulation, abbondante liquidità e speculazione finanziaria è stato nuovamente alla base delle turbolenze bancarie recenti, un altro fattore ha dimostrato che la storia potenzialmente può ripetersi: l’effetto contagio. Ancora una volta crisi bancarie partite dagli Stati Uniti si sono propagate in altri paesi, in particolare europei, con più virulenza rispetto alla nazione da cui sono scaturite. L’irrobustimento dei bilanci bancari europei e le riforme fatte in passato hanno fortunatamente evitato l’intensificarsi dei problemi. In Europa non possiamo però ritenerci completamente al riparo dal rivivere qualche brutta esperienza. Finché l’Unione Bancaria non sarà completata il rischio è di non avere a disposizione tutti gli strumenti necessari per arrestare sul nascere una crisi bancaria sistemica, come invece è possibile negli Usa. L’Unione bancaria difetta su alcuni punti fondamentali. Sul secondo pilastro, quello che norma i meccanismi di amministrazione delle crisi bancarie, il problema risiede nella dotazione del fondo (Single Resolution Fund, SRF) chiamato a gestire la risoluzione di istituti di credito di grandi dimensioni, e che dal loro default potrebbero derivare conseguenze sistemiche per altre banche. L’SRF avrà a disposizione, entro il 2024, circa 80 miliardi di euro di risorse. A questi potrebbero aggiungersi altri 68 miliardi, qualora l’SRF terminasse le sue disponibilità, messi a disposizione dal Meccanismo europeo di stabilità (MES). Qui però sorgono due ordini di problema: da un lato, il dibattito politico, che coinvolge direttamente l’Italia, sulla ratifica del MES; dall’altro, la farraginosità di questo approccio nel poter attivare risorse per “appena” 150 miliardi di euro. Nell’FDIC, la corrispettiva statunitense del fondo di risoluzione europeo, ha a disposizione risorse analoghe, ma all’occorrenza può ricevere una linea di credito illimitata da parte del Tesoro americano, paracadute che in Europa non è presente. A ciò si aggiunga che l’SRF interviene solo in caso di crisi sistemiche, lasciando in capo ai singoli paesi l’onere della risoluzione ordinata di crisi di portata nazionale, come sarebbe avvenuto nel caso della Silicon Valley Bank qualora questa banca avesse operato in Europa. Se il secondo pilastro dell’Unione bancaria necessiterebbe delle revisioni per migliorarne il funzionamento, sul terzo pilastro, ovvero lo schema unico di garanzia sui depositi, siamo ancora fermi ad una proposta della Commissione Europea del 2015. Questo pilastro è fondamentale per armonizzare i diversi approcci in termini di garanzie sui depositi bancari, evitando asimmetrie tra paesi che potrebbero indurre fughe di capitali in contesti critici, nonché per impiantare un fondo di garanzia comune, con una dotazione pari ad almeno lo 0,8% dei depositi garantiti. Proprio su quest’ultimo punto il dibattito in sede europea si è arenato, fondamentalmente per l’ostilità dei paesi nordici, timorosi di dover intervenire con risorse domestiche per ristorare i risparmiatori dei paesi con finanze meno solide. Il caso dell’SVB ci ha insegnato che in un’era iperconnessa, come quella attuale, possono bastare dei tweet per mettere in dubbio la solidità di un istituto di credito e avviare una corsa “virtuale” agli sportelli, corsa che si traduce in un deflusso di miliardi di dollari di depositi nell’arco di poche ore grazie all’operatività mediante l’internet banking.

La pandemia ha evidentemente, e giustamente, canalizzato tutte le attenzioni negli anni recenti, mettendo in secondo piano le questioni finanziarie. Un evento traumatico come il Covid-19 ha permesso di superare alcuni egoismi nazionali, riuscendo anche a far introdurre, con il Piano Nazionale Ripresa Resilienza (PNRR), quello che sembrava un tabù, ovvero la mutualità del debito dei paesi europei. L’auspicio è che questo spirito possa essere portato anche nell’adeguare e completare l’Unione Bancaria. Se non si riuscirà in questo obiettivo il rischio è che l’Europa sia il “vaso di coccio” della stabilità finanziaria internazionale. Ciò è ancor più vero, ed urgente, se si tiene conto delle ingenti sfide che gli istituti di credito dovranno affrontare, nell’immediato futuro, per adeguarsi ai cambiamenti climatici in corso.

Carlo Milani è economista, data scientist, responsabile dell’ufficio Analisi Dati e Intelligenza Artificiale di Banca Popolare Etica

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