Gli Stress Test sulle banche: esame finale o pagella di metà anno?
di Emilio Barucci e Marco Pavoni

Ago 04 2016
Gli Stress Test sulle banche: esame finale o pagella di metà anno?   di Emilio Barucci e Marco Pavoni

Lo scorso 29 luglio sono stati pubblicati i risultati dell’esercizio di Stress Test delle maggiori banche europee (51 banche che rappresentano circa il 70% delle attività bancarie). Esercizio coordinato dall’EBA (European Banking Authority) con la collaborazione della BCE e delle autorità di vigilanza nazionali. L’obiettivo dell’esercizio era di valutare la solvibilità delle banche in condizioni economiche e finanziarie avverse (adverse scenario a bassa probabilità di realizzazione) a partire dalle grandezze di bilancio a fine 2015.

A differenza dell’esercizio del 2014, lo Stress Test in oggetto non prevedeva l’individuazione di una soglia minima di capitale al di sotto della quale le banche avrebbero dovuto mettere in cantiere misure immediate di rafforzamento patrimoniale. I risultati rappresentano uno degli elementi cruciali per la quantificazione del capitale di Secondo Pilastro (Pillar 2) a conclusione del Processo di revisione e controllo prudenziale (Supervisory Review and Evaluation Process – SREP). Eventuali azioni/decisioni che dovessero scaturirne saranno operative nel 2017.

Nello scenario avverso previsto per l’Italia è ipotizzata una contrazione del PIL reale nel triennio 2016-18 di quasi 6 punti percentuali rispetto alle previsioni dello scenario di base (baseline scenario). Sempre nel triennio, lo scenario ipotizza un aumento del rendimento dei titoli di Stato italiani a lungo termine di circa 100 punti base e uno shock idiosincratico che prevede l’immediato declassamento del rating della banca di 2 “notch” per tutto il triennio. Chiaramente questa misura penalizza le banche con un rating di partenza basso (es. B) che vedono aumentare il costo della raccolta per titoli senior in misura molto significativa, fino a 220 punti base. E’ questo tra l’altro uno degli elementi che aiuta a spiegare il risultato di Monte Paschi che vede il CET1 (Common Equity Tier 1) ratio passare dal 12,2% al -2,4%.

I risultati dell’esercizio si collocano solo in parte in continuità con quelli promossi da EBA e BCE nel 2014 come passo preliminare per l’avvio della European Banking Union. Il principale punto di continuità è che anche questa volta la parte del leone viene svolta dal rischio di credito. La differenza principale (nei risultati) è che questo esercizio non sembra aver penalizzato maggiormente le banche dei paesi periferici; queste uscirono dagli stress test del 2014 con un basso livello di patrimonializzazione anche a causa di un basso livello di partenza del capital ratio, si veda Barucci, Baviera, Milani (2015).

Analizzando i risultati, possiamo provare a fare qualche breve considerazione:

– la riduzione del CET1 ratio nello scenario avverso è attribuibile innanzitutto al rischio di credito, nella misura di -370 punti base (pb) nel triennio, mentre il rischio di mercato pesa soltanto per -90 pb. Le banche nel complesso mostrano una buona capacità di generare profitti che porta ad un contributo di 230 pb che attenua buona parte degli effetti negativi sopra individuati. Da segnalare l’effetto negativo del rischio operativo (-110 pb), dovuto in larga misura al conduct risk introdotto per la prima volta (rischio economico e reputazionale connesso a pratiche che vanno a detrimento dei clienti e/o dei competitori) che è pari a -80 pb;

– in questo quadro la performance delle banche italiane (ad eccezione di MPS) è valutabile come complessivamente confortante soprattutto alla luce dei timori di rischio sistemico sorti prima dell’esercizio;

– come era prevedibile, le banche italiane sono state impattate, nello scenario avverso, in misura maggiore rispetto alle banche del campione dagli aggiustamenti sul portafoglio crediti (-580 pb sul CET1 ratio), mentre l’effetto relativo al rischio di mercato è stato in linea con quello del campione (-110 pb). D’altro canto, le banche italiane hanno beneficiato di un contributo in termini di profitti superiore rispetto al campione nel suo complesso (370 pb). Questo fenomeno è dovuto soprattutto al peso delle commissioni (maggiore nella misura del 10% rispetto al campione), componente questa che si è rivelata essere meno sensibile allo scenario avverso. Le banche italiane infine hanno espresso un maggiore abbattimento del CET1 e una minore crescita degli asset ponderati per il rischio rispetto al totale delle banche europee;

– scomponendo il rischio di credito per paese d’origine della controparte, possiamo osservare come il peso maggiore sia riferibile a controparti italiane, seguite da controparti della Gran Bretagna, Spagna e Francia. Il 41% delle perdite è riferibile alle imprese mentre le famiglie pesano per il 35%;

– nello scenario avverso le banche di Irlanda e Austria evidenziano una situazione di maggiore debolezza; il CET1 ratio medio è infatti rispettivamente pari a 5,2% e 7,1% contro l’8,8% delle banche italiane (inclusa peraltro Monte Paschi) e a fronte di un 9,5% medio del campione. E’ interessante notare come il dato per le banche della Gran Bretagna è 8,7%, non dissimile quindi da quello delle banche italiane, così come quello per le banche tedesche e francesi che si attesta rispettivamente al 9,4% e al 9,6%;

– in generale lo status di G-SIB (Globally Sistemically Important Banks) ha particolarmente impattato le banche in questione per il “buffer” di capitale richiesto in aggiunta alla soglia minima del 5,5%; infatti delle 15 migliori banche in termini di CET1 ratio nello scenario avverso solo una è una G-SIB (Nordea) mentre ad esempio Deutsche Bank, Barclays e BNP Paribas hanno scontato l’effetto del “buffer” di 200 pb connesso al loro status.

E’ difficile valutare l’esito dell’esercizio. Colpisce la presenza di un outlier come Monte Paschi e i risultati assai diversi di altre banche (alcune anche italiane) che non apparivano essere in condizioni molto solide sul fronte del credito. A fronte del peso (significativo) degli aggiustamenti sui crediti, desta perplessità in particolare la modesta correlazione tra risultato dell’esercizio in termini di capitale e il livello del Texas ratio, comunemente utilizzato come indicatore di non solidità di una banca. Se tale indice si è infatti dimostrato essere un buon ‘’predittore’’ del risultato delle due peggiori banche (Monte dei Paschi e Allied Irish Bank con un Texas ratio rispettivamente pari a 283 e 151), non altrettanto può essere detto per altre banche che pure esprimono un Texas ratio elevato. Analoga considerazione può essere espressa per il grado di copertura dei NPL includendo accantonamenti e garanzie.

Nel complesso il sistema bancario europeo appare solido. E’ difficile valutare la qualità dell’esercizio anche alla luce delle critiche espresse da molti analisti in merito alle ipotesi alla base dell’esercizio, grado di severità, dimensione del campione, trattamento dei derivati complessi.

E’ certamente difficile fare previsioni sulle richieste di capitale che verranno avanzate dalle autorità di vigilanza in sede di SREP; nel complesso il fabbisogno potrebbe essere nell’intorno di alcune decine di miliardi (secondo alcune stime fino a 50-60). Un obiettivo non impossibile da raggiungere.

Il vero punto di domanda a nostro avviso riguarda l’utilità di questi esercizi. Essi sono sicuramente importanti per le autorità di vigilanza che hanno così lo strumento per indagare a fondo i profili di rischio delle banche. E’ invece più difficile comprendere la valenza della diffusione dei risultati; l’idea che essa permetta una più adeguata valutazione da parte del mercato appare non fondata. A fronte di un contributo positivo in termini di trasparenza, il rischio è di generare turbolenze non necessarie sul mercato e di alimentare un dibattito senza fine sulla validità e imparzialità di questi esercizi.

Del resto anche nelle migliori pratiche di risk management, gli esiti degli Stress Tests condotti da una istituzione finanziaria costituiscono sempre il punto di partenza di analisi delle sensitività ai diversi fattori di rischio e di valutazioni degli impatti, con l‘obiettivo di definire le azioni più appropriate per mitigare i rischi che i risultati evidenziano. Un passaggio che in questa sede non può essere effettuato in quanto l’EBA e le autorità di vigilanza non arrivano (forse giustamente) a questo livello di trasparenza.

In questo contesto sarebbe probabilmente preferibile che i risultati non fossero pubblicati in quanto è oramai acclarato, come le dinamiche di mercato di questi giorni dimostrano, che gli Stress Tests non hanno la capacità taumaturgica di ridare fiducia a mercati fondamentalmente scettici.

Quindi, ben vengano gli stress test, ma unicamente ad uso e consumo delle autorità di vigilanza. Il loro utilizzo per dimostrare ai mercati la solidità del sistema bancario rischia invece di risultare controproducente. In definitiva gli Stress Tests non dovrebbero essere interpretati come l’esame di fine anno quanto come la pagella di metà anno, utile per lo studente (la banca) e il maestro (autorità di vigilanza) nello svolgimento dello SREP.

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Emilio Barucci, Roberto Baviera, Carlo Milani (2015) What are the lessons of the Comprehensive Assessment? A first evidence, www.finriskalert.it .

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