L’ESMA ha pubblicato un Consiglio sull’applicazione della direttiva AIFMD e un’Opinione sul rapporto tra i manager europei di fondi di investimento alternativi e i regimi privati di placement nazionali.
L’EBA ha aperto una consultazione sulla cooperazione tra schemi di garanzia dei depositi. L’obiettivo è la garanzia di un livello uniforme di protezione degli investitori all’interno dell’UE.
La consultazione terminerà il 29 ottobre.
L’IOSCO ha pubblicato un documento su puntualità e frequenza nelle divulgazioni agli investitori, suddiviso per emittenti e per schemi collettivi di investimento.
L’IOSCO ha pubblicato un report sull’attuazione della regolamentazione degli intermediari dei mercati dei derivati. La regolamentazione di riferimento è il report pubblicato dallo stesso IOSCO nel 2012.
Il Financial Stability Board attenderà la fine del proprio lavoro sui rischi per la stabilità finanziaria derivanti dalle attività di asset management per completare le metodologie per le G-SIFIs non bancarie e assicurative. Le raccomandazioni sui rischi delle attività di asset management saranno pronti nella primavera 2016.
Il Comitato di Basilea e l’IOSCO hanno pubblicato i criteri per identificare semplici, trasparenti e comparabili cartolarizzazioni.
Il FSB ha pubblicato il secondo report annuale (sino al 31 marzo 2015), in cui si analizzano la situazione finanziaria mondiale e l’avanzamento delle riforme del FSB.
Il FSB ha pubblicato il nono report sull’attuazione delle riforme nei mercati dei derivati OTC.

Si è chiusa nei giorni scorsi la consultazione avviata da Consob per raccogliere osservazioni e suggerimenti dalla comunità finanziaria sulla regolamentazione dell’Equity Crowdfunding in Italia, a più di un anno dall’entrata in vigore delle norme specifiche che hanno introdotto tale opportunità per le start-up innovative, in deroga alla disciplina sulle offerte pubbliche. Un anno durante il quale il mercato è partito molto lentamente, e senza clamore.
L’Equity Crowdfunding consente alle imprese di raccogliere capitale finanziario attraverso Internet, offrendo in cambio quote della proprietà dell’impresa, e quindi la possibilità di compartecipare agli utili e alla creazione di valore nel lungo termine. Tipicamente la campagna di raccolta viene veicolata attraverso piattaforme specializzate, dove gli imprenditori possono presentare l’opportunità e raccogliere le adesioni.
Il meccanismo è molto semplice: l’impresa elabora un business plan e stabilisce la quota del capitale che si intende offrire agli investitori. Una corretta valutazione potrà basarsi sull’attualizzazione del valore prospettico dell’impresa (utilizzando un tasso di rendimento atteso adeguato, che tenga conto dell’elevato rischio dell’attività) o sull’utilizzo di multipli comparabili, ricavati da campagne di equity crowdfunding già condotte con successo da altre imprese. L’offerta viene pubblicata su un portale autorizzato da Consob, il quale chiede tipicamente una commissione sul capitale raccolto in caso di successo della campagna (che va in genere dal 4% al 7%). Sarà poi necessario procedere con gli adempimenti legali e statutari, approvando un aumento di capitale, espressamente riservato. L’aumento di capitale sarà inscindibile fino all’importo minimo che si intende raccogliere, e potrà prevedere un’ulteriore porzione scindibile, fino all’importo massimo desiderato. Va da sé che se la campagna non raggiungerà l’importo minimo definito, sarà destinata a fallire. Il sovrapprezzo delle quote offerte sarà in funzione della valutazione definita nella fase precedente. Sarà possibile offrire quote ordinarie, o con diritto di voto nullo o limitato, e/o diritti particolari, come il privilegio in caso di liquidazione della società o di pagamento del dividendo in futuro. Un’altra opportunità è quella di differenziare l’offerta in funzione dell’importo sottoscritto, riservando particolari diritti o condizioni aggiuntive di favore a chi finanzierà con importi maggiori. Andrà poi fissato l’importo minimo che è possibile sottoscrivere.
La ‘folla’ di Internet può analizzare le singole proposte, e aderire on-line attraverso le procedure previste (sotto o sopra la soglia prima definita dalle procedure Mifid). L’offerta dovrà prevedere una scadenza, ovvero un termine ultimo per la raccolta. Al termine, sarà comunque possibile una proroga.
Il crowdfunding è una modalità di finanziamento ancora relativamente poco diffusa per le imprese, ma in rapida crescita. Secondo il report pubblicato dalla società di consulenza Massolution nel 2015, esistono nel mondo ben 236 portali specializzati nel pubblicare offerte di equity crowdfunding, attraverso le quali sono stati raccolti ben 1,11 miliardi di dollari nel 2014, con una stima di un flusso pari a 2,56 miliardi di dollari nel 2015. Vale comunque la pena ricordare che l’equity crowdfunding è solo una delle modalità attraverso le quali un’impresa innovativa può raccogliere capitale. Esiste infatti la possibilità di chiedere il supporto della ‘folla’ di Internet offrendo in cambio una ricompensa di natura non monetaria (‘reward crowdfunding’) o una pre-vendita del prodotto/servizio che verrà realizzato grazie alla campagna di raccolta (‘pre-selling crowdfunding’) o promettendo il rimborso e la remunerazione del capitale attraverso un tasso di interesse (‘lending crowdfunding’). Negli anni recenti, sono migliaia le imprese che attraverso queste forme di finanziamento hanno potuto raccogliere capitale e realizzare prodotti innovativi. Alcuni fra i casi più noti sono le campagne organizzate da Pebble Watch e Pebble Time sulla piattaforma americana Kickstarter (che hanno raccolto rispettivamente oltre 10 e oltre 20 milioni di dollari), quella organizzata per il videogioco Star Citizen sempre su Kickstarter (oltre 80 milioni di dollari) e quella per il frigorifero da picnic Coolest Cooler (oltre 13 milioni di dollari su Kickstarter).
Il tema dell’equity crowdfunding sta riscuotendo in questo periodo un grande interesse dal mondo finanziario, per almeno tre motivi. Il primo è l’ormai cronica riduzione dell’offerta di capitale per le imprese, in particolare di piccola dimensione, da parte del sistema bancario. Ciò spinge gli imprenditori a ricercare fonti alternative di finanziamento. Il secondo è la popolarità del modello del ‘crowdsourcing’, che consiste nella ricerca attiva del coinvolgimento della ‘folla’ di Internet per le strategie di marketing e di sviluppo dei nuovi prodotti da parte delle aziende, e ora anche per la raccolta di risorse finanziarie, destinate a finanziare sia progetti innovativi, sia campagne di donazione o di mecenatismo. Il terzo motivo è la scelta da parte dei diversi Stati di introdurre norme specifiche sul tema del crowdfunding, sull’onda del ‘Jobs Act’ lanciato dal presidente Barack Obama, che ha introdotto negli USA l’equity crowdfunding (entrato in vigore prima per gli investitori ‘accreditati’ e solo dal 2015 per il pubblico dei piccoli investitori). Persino l’Unione Europea nel 2014 ha ritenuto opportuno pubblicare un documento specifico dal titolo eloquente: “Unleashing the potential of Crowdfunding in the European Union”.
La normativa in vigore
In Italia l’equity crowdfunding è stato introdotto, in deroga alla disciplina sulle offerte pubbliche di sottoscrizione, dal D.L. 179/2012 (‘Decreto Sviluppo’), che ne ha però limitato l’accesso alle imprese qualificate come ‘start-up innovative’ (o ai veicoli che investono nel capitale di queste imprese). Il successivo D.L. 3/2015 (‘Decreto Investment Compact’) ha esteso l’accesso alle ‘PMI innovative’. La legge ha dato mandato alla Consob di redigere un regolamento attuativo, pubblicato con delibera n. 18592 il 26 giugno 2013 dopo un periodo di consultazione, e che probabilmente sarà rivisto nei prossimi giorni sulla base della consultazione appena conclusa.
Le offerte di equity crowdfunding devono essere veicolate obbligatoriamente attraverso dei portali autorizzati, la cui gestione è riservata alle imprese di investimento e alle banche autorizzate ai relativi servizi di investimento nonché ai soggetti iscritti in un apposito registro pubblico tenuto dalla Consob, a condizione che questi ultimi trasmettano gli ordini riguardanti la sottoscrizione e la compravendita di strumenti finanziari rappresentativi di capitale esclusivamente a banche e imprese di investimento. La raccolta massima non può superare l’importo di € 5 milioni, e gli strumenti finanziari offerti devono essere necessariamente titoli equity (non è possibile collocare titoli di debito come obbligazioni). Sono anche fissate delle soglie massime d’investimento: in particolare, le persone fisiche possono investire fino ad un massimo di € 500 per ogni transazione e fino a € 999 annuali (riferiti a tutti gli investimenti in equity crowdfunding effettuati), mentre le persone giuridiche possono investire fino ad un massimo di € 5.000 per ogni transazione e fino a € 10.000 annuali (riferiti a tutti gli investimenti). Per investimenti superiori alle soglie riportate, sarà viceversa necessario seguire la consueta procedura di profilatura MIFID presso un istituto bancario. In questo ultimo caso l’adesione via Internet dovrà quindi essere completata nei giorni successivi attraverso la profilatura da parte di una banca o di una SIM.
Vale la pena ricordare che chi aderisce ad una campagna di equity crowdfunding potrà accedere ai benefici fiscali validi per chi sottoscrive quote del capitale di rischio di una qualsiasi start-up innovativa, attraverso una detrazione fiscale (per le persone fisiche) o un credito d’imposta (per le persone giuridiche).
Per essere valida, una campagna di equity crowdfunding deve essere sottoscritta per almeno il 5% dell’importo da investitori ‘professionali’ quali banche, fondi di investimento, incubatori certificati e fondazioni. Nelle intenzioni del regolatore, questo serve per ridurre le asimmetrie informative e dare un segnale positivo ai possibili investitori. Non va dimenticato infatti che l’investimento nelle campagne di equity crowdfunding è estremamente rischioso, trattandosi della sottoscrizione di quote di capitale di start-up innovative, non quotate in Borsa e che certamente non distribuiranno dividendi nel breve termine. Si deve dunque evitare le truffe e determinare un buon equilibrio fra la protezione dei risparmiatori sul mercato e la possibilità per imprese promettenti e virtuose di raccogliere risorse finanziarie sul mercato, che consentano loro di crescere, creare lavoro e innovazione.
Le norme italiane prevedono anche una clausola di diritto di recesso dalla società ovvero il diritto di co-vendita delle proprie partecipazioni, nel caso di cambiamenti del controllo dell’impresa che ha chiuso con successo un’operazione di equity crowdfunding. Tale clausola, se non già presente, deve dunque essere inserita a Statuto.
L’AIEC, l’Associazione Italiana dei portali di Equity Crowdfunding, ha accolto con favore la consultazione di Consob, e ha chiesto alcune modifiche alla normativa, per aumentare la soglia di investimento rilevante ai fini della MIFID, consentire ai portali stessi di equity crowdfunding di procedere con la profilatura del cliente (senza ricorrere a banche o SIM), e ampliare il novero degli ‘investitori professionali’ titolati a sottoscrivere almeno il 5% dell’offerta loro riservata.
La situazione del mercato in Italia
Le prime due piattaforme Internet di equity crowdfunding in Italia, autorizzate da Consob, sono quelle di StarsUp e di Unica Seed. I portali sono stati iscritti rispettivamente alla sezione speciale e alla sezione ordinaria del registro ufficiale. Il primo progetto è stato ‘lanciato’ il 31 dicembre 2013 dalla piattaforma Unica Seed, ed è l’offerta effettuata dalla Diaman Tech srl di Marcon (Venezia), società che offre servizi informatici nel campo del risparmio gestito.
L’osservatorio sul crowdfunding della School of Management del Politecnico di Milano a fine luglio 2015 aveva censito 25 campagne di equity crowdfunding presentate su 6 portali autorizzati da Consob. Fra queste, 7 avevano raggiunto il target di raccolta (raccogliendo nel complesso € 2,31 milioni, con una media di adesioni per ogni campagna di 34 investitori), mentre 14 avevano fallito l’obiettivo. Interessante notare che molte di queste ultime hanno ottenuto un commitment in termini di offerte rispetto al target di raccolta inferiore a 1%. È quindi veramente fondamentale costruire una campagna di marketing efficace ed evitare valutazioni eccessivamente ottimistiche, che scoraggino gli investitori dal partecipare.
L’importo medio del collocamento è pari a € 341.839 (con un valore minimo di € 80.000 e un valore massimo di € 750.000). In media la quota del capitale offerto è pari al 23,74% (valore minimo 0,95%, massimo 86,67%). Dai numeri si evince che la valutazione implicita delle start-up innovative che hanno tentato la strada dell’equity crowdfunding è in alcuni casi molto elevata. Sono ben 5 le start-up che hanno proposto una valutazione pre-money (ovvero senza considerare il capitale da raccogliere nella campagna) superiore a € 2 milioni. Non a caso hanno fallito l’obiettivo di raccolta nei tempi previsti.
Conclusioni
L’avvio dell’equity crowdfunding in Italia è stato lento e faticoso (con numeri non paragonabili rispetto ad altri paesi come USA e UK), ma ha comunque introdotto un’innovazione potenzialmente dirompente. Il Paese sconta una scarsa predisposizione (soprattutto fra le fasce di popolazione più mature, che oggi godono anche della maggiore disponibilità di denaro) verso l’investimento nel capitale di rischio e verso l’uso di Internet quale piattaforma di transazione finanziaria.
Nel breve termine certamente ci saranno degli ‘aggiustamenti’ normativi, maturati sulla base dell’esperienza condotta (in particolare rispetto alla complessità delle normative MIFID per la gestione dei flussi di denaro). La recente estensione dell’opportunità alle PMI innovative potrebbe ulteriormente rilanciare il flusso della raccolta. Sarà necessario ridurre i costi di transazione relativi alla successiva cessione dei titoli sottoscritti. Allo stesso tempo è probabile che si assista ad una concentrazione fra i gestori di portali (molti di quelli autorizzati dopo mesi non hanno ancora pubblicato campagne) e all’ingresso sul mercato di player importanti dall’estero, che possano investire pesantemente sullo sviluppo di questa nuova industria. Sarà interessante analizzare se l’equity crowdfunding contribuirà effettivamente a ridurre i vincoli finanziari per le società start-up innovative, e a generare sinergie con altri canali di finanziamento come i business angels e il venture capital. Inoltre si dovranno trovare soluzioni efficienti per la gestione di un azionariato numeroso e frammentato per piccole società non dotate di strutture organizzative. Così come si dovrà strutturare un mercato ‘secondario’ per le quote azionarie sottoscritte.
Soprattutto siamo in attesa dell’arrivo di start-up innovative che propongano prodotti e servizi originali in grado di stimolare l’entusiasmo della ‘folla’ di Internet e scatenare un’attenzione virale fra gli investitori, che non sia limitata a pochi addetti ai lavori.

Il Report Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane lascia emergere il profilo di un risparmiatore con scarse capacità di orientamento nel percorso di investimento.
L’investitore italiano ritiene di aver capacità finanziarie superiori alla media, ma mostra limitate conoscenze finanziarie di base. È esposto a errori di valutazione (bias) che possono distorcerne la percezione del rischio, anche quando presenta un livello elevato di istruzione e conoscenze finanziarie. È molto avverso alle perdite e la sua propensione a investire aumenta se sono disponibili prodotti a capitale protetto e/o rendimento minimo garantito. Il fattore più rilevante è, comunque, la fiducia: oltre il 40% degli intervistati si avvale del consiglio di familiari e amici prima di investire, mentre il ricorso alla consulenza rimane ancora marginale.
Nel 2014 una famiglia su due partecipa ai mercati finanziari e una famiglia su tre detiene almeno un’attività rischiosa.
A fine 2014 il livello di partecipazione delle famiglie ai mercati finanziari si è attestato attorno al 48%, in crescita di sette punti percentuali rispetto all’anno precedente ma ancora inferiore ai valori registrati nel 2007 (55%). La partecipazione è divenuta più significativa in ragione della maggiore quota di investitori retail che detengono almeno un’attività rischiosa (azioni, obbligazioni, risparmio gestito e polizze vita), passata dal 26% nel 2013 al 32% nel 2014. In particolare, come si evince dai dati sulla composizione di portafoglio, è aumentata, tornando sui livelli pre-crisi, la quota di ricchezza finanziaria investita in prodotti del risparmio gestito (16%), mentre rimane più contenuto il peso delle azioni (5%, sostanzialmente dimezzato rispetto al 2007).
Fiducia e protezione del capitale incentivano l’investimento. Tra i fattori che incentivano l’investimento, il 56% degli intervistati indica la fiducia negli intermediari finanziari, mentre la possibilità di investire in prodotti a capitale garantito o a rendimento minimo è rilevante per il 52% del campione; seguono i costi connessi all’investimento (41%) e l’andamento dei mercati (24%; Figura 1). L’attenzione prevalente verso la protezione del capitale e la garanzia di un rendimento minimo è coerente con il dato relativo all’avversione alle perdite, particolarmente marcata per il 72% del campione, e ricorre anche nella scelta tra diverse opzioni di investimento. In particolare, tra gli elementi da tenere in considerazione nella valutazione di uno strumento finanziario il 15% degli investitori indica la protezione del capitale, l’orizzonte temporale e la diversificazione del portafoglio; il rischio di liquidità, credito e mercato risultano importanti, rispettivamente, per il 10%, 6% e 5% dei soggetti, mentre solo l’8% ritiene che l’obiettivo di investimento sia un fattore rilevante.
Oltre l’80% degli individui ritiene di avere capacità superiori alla media, ma abilità percepite e conoscenze reali divergono per almeno un terzo dei decisori finanziari.
Nonostante la diffusa percezione positiva delle proprie competenze in materia di scelte economiche e di investimento, le conoscenze finanziarie e le capacità logico-matematiche degli italiani rimangono basse. Inflazione, diversificazione, relazione rischio-rendimento, interesse semplice e rendimento atteso di un investimento continuano a essere nozioni poco note e di difficile applicazione. In particolare, quasi la metà del campione dichiara di non conoscere o definisce in modo errato il concetto di inflazione; il 55% non è in grado di indicare correttamente cosa significhi diversificare gli investimenti e circa il 57% non sa spiegare la relazione rischio-rendimento (Figura 2). Inoltre, il 67% e il 72% degli individui non riesce a calcolare, rispettivamente, un montante in regime di interesse semplice e il rendimento atteso di un investimento.
Genere, istruzione e area di residenza sembrano essere correlati con il livello di conoscenze finanziarie. In dettaglio, in termini di percentuale di soggetti che hanno risposto correttamente ad almeno quattro domande su cinque, il divario è pari a 13 punti percentuali tra uomini e donne, 18 punti tra laureati e individui con un livello di istruzione più basso, 18 punti tra residenti al Nord e residenti al Sud.
È significativo, inoltre, il divario tra abilità percepite e conoscenze dimostrate: ad esempio, tra i soggetti che si dichiarano nella media o superiori alla media rispetto alla comprensione delle caratteristiche di prodotti finanziari di uso quotidiano, il 30% non è in grado di definire correttamente il concetto di inflazione e il 44% non sa calcolare il rendimento atteso di un investimento. Il 32% di coloro che si riconoscono buone capacità nel prendere decisioni di investimento non conosce né il significato di diversificazione di portafoglio né la relazione rischio-rendimento. Il 18% del campione, inoltre, non ha familiarità con alcun tipo di strumento finanziario.
Per un soggetto su due il rischio finanziario coincide con possibili perdite in conto capitale, mentre l’andamento dei mercati, la possibilità di ottenere guadagni inferiori a quelli attesi o la volatilità dei rendimenti sono importanti per una quota del campione oscillante tra il 25% e il 29% (Figura 3).
L’importanza dei fattori di rischio varia con il livello di conoscenza finanziaria. Per il sotto-gruppo di soggetti più ‘preparati’ (ossia che hanno dimostrato di avere dimestichezza con tutte le nozioni di base menzionate prima), rilevano soprattutto le eventuali spese legali da sostenere per ottenere un risarcimento danni e la difficoltà di monitorare gli investimenti, oltre alle possibili perdite di capitale; per i meno preparati (coloro che non hanno fornito nessuna risposta corretta) le criticità maggiori risiedono nel possibile conseguimento di un rendimento inferiore a quello atteso o di una perdita in conto capitale, oltre alla variabilità dei rendimenti.
L’esposizione a bias comportamentali, che possono incidere sulla percezione del rischio finanziario, si riscontra in una percentuale di intervistati compresa tra il 15% e il 37%. Per questi soggetti, le modalità di presentazione dell’informazione possono indurre un atteggiamento verso il rischio variabile.
La percezione del rischio può essere correlata non solo alle conoscenze finanziarie ma anche a tratti personali degli individui (quali l’ottimismo), al contesto in cui si compie la scelta e ad attitudini comportamentali (cosiddetti bias) in antitesi rispetto all’ipotesi di razionalità e stabilità delle preferenze verso il rischio previste dalla teoria classica.
La maggior parte dei soggetti inclusi nel campione mostra un atteggiamento verso il rischio invariante rispetto al contesto di riferimento: coloro che risultano avversi al rischio in ambito lavorativo, dichiarando di preferire una remunerazione fissa a una variabile, quasi sempre lo sono anche rispetto alle scelte di investimento (81% dei casi) e viceversa per coloro che si dichiarano propensi al rischio in ambito sia lavorativo sia finanziario (85% dei casi). L’atteggiamento verso il rischio mostra, tuttavia, una maggiore variabilità se valutato rispetto al dominio dei risultati attesi (positivo versus negativo) ovvero rispetto a potenziali guadagni versus potenziali perdite. Il 31% degli intervistati dichiara preferenze per il rischio opposte a seconda che si trovi a scegliere tra opzioni che comportano solo guadagni ovvero solo perdite (cosiddetto effetto certezza). Il 37% dei soggetti, invece, mostra una propensione a vendere velocemente i titoli con rendimenti positivi, per poter monetizzare i guadagni, e a mantenere in portafoglio i titoli in perdita per rimandare la monetizzazione delle perdite (cosiddetto disposition effect), evidenziando una differente valutazione di guadagni e perdite.
La conoscenza non «protegge» dall’esposizione ai bias comportamentali
La quota di soggetti esposti ad almeno un bias è pari a circa l’83% per il sotto-campione degli individui con conoscenze finanziarie più elevate e al 66% dei soggetti con conoscenze più limitate (Figura 4). L’educazione finanziaria dovrebbe essere utilizzata, dunque, non solo per colmare gap nozionistici ma anche per correggere, ove possibile, distorsioni comportamentali.
Il ricorso alla consulenza è ancora poco diffuso.
Per quanto riguarda gli stili di investimento, il 44% dei soggetti sceglie dopo aver consultato familiari e amici, il 22% si affida ai consigli di un esperto ovvero delega a questi la gestione dei propri investimenti (il dato si riferisce soprattutto a donne, lavoratori autonomi, soggetti di età compresa tra i 45 e i 64 anni o famiglie abbienti), mentre il 15% decide in autonomia (soprattutto ultra sessantacinquenni e meno abbienti; Figura 5).
Solo il 9% degli investitori fa affidamento su proposte di investimento personalizzate e riferite a uno specifico strumento finanziario. Tali soggetti detengono generalmente un portafoglio più diversificato (a fine 2014 il 74% possiede almeno uno strumento finanziario rischioso) rispetto a coloro che non si avvalgono di un consulente.
Gli investitori sembrano percepire poco i vantaggi connessi al servizio di consulenza, come emerge anche dalla bassa disponibilità a pagare dai livelli di soddisfazione contenuti
Tra gli intervistati, oltre il 60% dichiara di non essere disposto a sostenere alcun costo o non si esprime. I risparmiatori sottovalutano, infine, l’importanza dello scambio informativo che deve attivarsi tra consulente e cliente affinché il primo possa fornire un servizio nel miglior interesse del secondo (Figura 6). In particolare, il 14% degli intervistati dichiara di non sentirsi in dovere di fornire informazioni complete e veritiere in merito alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria all’intermediario tenuto alla valutazione di adeguatezza delle proposte di investimento, mentre la percentuale di coloro che ritengono importante comunicare elementi utili alla valutazione di adeguatezza oscilla tra il 7% e il 30%.
Note:
– Il presente intervento riprende i temi sviluppati nel Report sulle scelte di investimento delle famiglie italiane della Consob. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza.
– Il Report fa riferimento ai dati derivanti dall’Indagine Multifinanziaria Retail Market e dall’Osservatorio su ‘L’approccio alla finanza e agli investimenti delle famiglie italiane‘ (GfK Eurisko). Multifinanziaria Retail Market: campione di circa 2.500 famiglie. Osservatorio su ‘L’approccio alla finanza e agli investimenti delle famiglie italiane‘: 1.013 famiglie. In entrambi i casi il decisore finanziario (di età compresa fra 18 e 74 anni) è il percettore di reddito più elevato in famiglia