La Commissione europea ha richiesto all’ESMA una consulenza tecnica sugli atti di implementazione riguardanti il regolamento relativo all’abuso di informazioni privilegiate e la manipolazione del mercato (MAR). ESMA, in particolare, è invitata a fornire consulenza sui requisiti tecnici delle procedure per consentire la segnalazione di violazioni effettive o potenziali del MAR alle autorità competenti, comprese le modalità di rendicontazione e di monitoraggio delle relazioni, e le misure per la protezione dei lavoratori subordinati e per la protezione dei dati personali.
L’ESMA ha pubblicato una seconda serie di domande e risposte sul regolamento sulle agenzie di rating (CRA 3). Il Q & A aggiornata fornisce chiarimenti in merito alla pubblicazione dei rating sovrani e conflitto di interessi in materia di investimenti in agenzie di rating.

Nell’imminenza delle decisioni della BCE in merito all’ipotesi di una nuova stagione di misure non convenzionali di politica monetaria (delle mosse sinora attuate abbiamo già parlato, si veda Barucci, Corsaro, Milani, 2014), proviamo a fare il punto sugli effetti del Quantitative Easing della Fed. Gli esiti sui mercati monetari sono stati sicuramente significativi, al contempo anche quelli sull’economia reale appaiono di rilevante entità, sebbene non ci sia unità di vedute al riguardo.
1. IL QUANTITATIVE EASING DELLA FED
A seguito della crisi economico-finanziaria del 2007, la Federal Reserve ha da subito messo in atto le classiche misure monetarie espansive, abbassando i tassi di interesse di riferimento del mercato monetario, che sono passati da 5,25% a zero. Questa mossa non sembrò essere sufficiente a tranquillizzare i mercati e a rilanciare l’economia. Per questo motivo, a partire dalla fine del 2008, la Fed ha promosso misure non convenzionali, che si sono concretizzate nell’acquisto titoli sui mercati secondari (Quantitative Easing – QE, anche detto Large Scale Asset Purchase – LSAP) (Fed, 2013; Fed, 2014a). La banca centrale statunitense ha deciso di acquistare titoli garantiti da ipoteche (Mortgage-backed securities, MBS) e titoli pubblici (Treasuries).
Il programma si è articolato in almeno quattro fasi distinte:
- Il QE1 è partito nel 2008 con l’acquisto di 100 miliardi di dollari di debito di imprese private con supporto governativo (quali Fannie Mae e Freddie Mac) e 500 miliardi di MBS; pochi mesi dopo, il programma è stato ampliato quantitativamente e qualitativamente, con l’acquisto di 300 miliardi di Treasuries a lungo termine. Il QE1 ha avuto termine all’inizio del 2010;
- Gli acquisti di titoli sono ripartiti nel novembre del 2010 (QE 2). Nel 2011, con l’operazione Twist, la banca centrale statunitense ha modificato la composizione del suo portafoglio, vendendo titoli a breve e acquistando titoli a lungo termine; l’obiettivo era quello di diminuire i tassi di interesse a lungo termine rispetto a quelli a breve.
- Nel settembre 2012 è stata approvata la terza ondata di acquisti (QE 3): a differenza di QE 1 e QE 2, la Fed non ha stabilito l’ammontare di titoli da comprare, ma il ritmo degli acquisti, pari a 40 miliardi di MBS al mese.
- Dopo pochi mesi la Fed ha deciso anche di acquistare Treasuries a lungo termine pari a 45 miliardi al mese senza sterilizzazione (QE 4).
Alla fine dello scorso anno, in seguito al miglioramento dei principali indicatori economici, è iniziato il processo di diminuzione degli acquisti dei titoli (tapering): ad oggi essi ammontano a 45 miliardi mensili (Fawley e Neely, 2013; Fed, 2014b).
2. IL QE E IL MERCATO MONETARIO
Negli anni antecedenti la crisi, la Federal Reserve deteneva attività tra 700 e 800 miliardi di dollari, per la quasi totalità titoli di stato a breve e a lungo termine. Le politiche monetarie messe in atto negli ultimi anni hanno dilatato significativamente il suo portafoglio, che attualmente è valutabile in oltre 4.300 miliardi di dollari. I Treasuries a breve termine sono quasi del tutto scomparsi, mentre quelli a lungo termine sono aumentati in misura significativa. Nel bilancio della Fed trovano posto anche 1500 miliardi di MBS (Fawley e Neely, 2013; Fed, 2014c).
Gli acquisti hanno avuto come obiettivo principale quello di aumentare i prezzi dei titoli e di diminuirne i rendimenti. Oltre che indurre gli operatori a modificare i propri portafogli, le mosse della Fed hanno fornito liquidità e migliorato il funzionamento dei mercati. Questi obiettivi sembrano aver avuto un ruolo importante soprattutto nella prima fase di QE. L’effetto è stato significativo in particolar modo per i Treasuries a lungo termine (Fed, 2013, Gagnon et al., 2011).
A differenza delle successive espansioni monetarie, il QE 1 è stata una mossa inaspettata da parte dei mercati. Il suo effetto è stato significativo, all’atto dell’annuncio nel novembre 2008 si è registrata una diminuzione dei tassi di interesse compresa tra i 2 punti base per i Treasuries a 2 anni e gli oltre 40 punti base per le MBS e le obbligazioni delle imprese private con supporto governativo. La diminuzione dei rendimenti dei Treasuries decennali che ha fatto seguito alle dichiarazioni del comitato della Fed del marzo 2009 è stata pari a 47 punti base, un dato che rappresenta il calo più significativo dal 1987 ad oggi. La variazione dei tassi associata alle otto dichiarazioni effettuate dalla Fed tra il novembre 2008 e il novembre 2009 è assai significativa: i rendimenti dei Treasuries a 2 e 10 anni, delle obbligazioni delle imprese a 10 anni e delle MBS sono diminuiti rispettivamente di 34, 91, 156 e 113 punti base. Il QE 1 ha agito soprattutto sul term premium e quindi sui rendimenti a lungo termine (Gagnon et al., 2011; Rogers et al., 2014 ).
Il QE 2 non ha beneficiato dell’effetto sorpresa del QE 1. Al momento del suo annuncio gli analisti avevano già presente la possibilità che la banca centrale mettesse in campo un nuovo round di acquisto di obbligazioni. Non a caso tra l’agosto e l’ottobre 2010 il rendimento dei titoli pubblici decennali era calato di 25 punti base, giungendo al 2,41%, il valore minimo dal gennaio 2009. Al momento dell’annuncio del QE 2 (novembre 2010), i rendimenti erano risaliti ai livelli di agosto e nei due mesi successivi sono aumentati di 63 punti base. Anche il QE 3 era in qualche modo già stato scontato dagli operatori: nella settimana successiva al suo annuncio, i rendimenti sui titoli pubblici a 10 anni hanno conosciuto un aumento di tredici punti base (Fawley e Neely, 2013: US Treasury, 2014).
I risultati positivi del QE sui mercati monetari e finanziari sono largamente riconosciuti: due mesi dopo ogni nuovo round di acquisti, i tassi di interesse a lungo termine sono calati dello 0,15%; nello stesso arco temporale, le azioni si sono apprezzate in misura significativa. In contrasto con i risultati esposti in precedenza, gli acquisti di QE 2 e QE 3 sembrano aver avuto più efficacia di quelli compiuti nel QE 1 (Meinusch e Tillmann, 2014).
Effetti positivi sono stati riscontrati anche per i MBS. La quota di MBS detenuta dalla Fed rispetto al totale del mercato è cresciuta in misura significativa tra il 2000 e il 2013: a giugno dello scorso anno la quota era pari al 24%. Alcune analisi stimano che tale quota abbia portato ad una diminuzione dei rendimenti delle MBS dell’ordine di 55 punti base. Gli acquisti per 10 miliardi a settimana compiuti dalla Fed sino a pochi mesi avrebbero contribuito a far calare il loro rendimento di 0,5 punti base sempre a settimana. (Hancock e Passmore, 2014).
Attorno al reale effetto delle operazioni di QE non vi è comunque una valutazione unanime. Da più parti si osserva che se il QE avesse davvero contribuito alla riduzione dei rendimenti sui titoli, il differenziale di rendimento tra i titoli dei paesi che non hanno messo in cantiere operazioni di QE e gli Stati Uniti dovrebbe essere aumentato. Paragonando i rendimenti di USA, Germania, Regno Unito e Francia si nota come lo spread sia effettivamente cresciuto nei giorni di intensa applicazione del QE (tra novembre 2008 e gennaio 2009) ma l’effetto sia stato poi rapidamente assorbito: dal picco di gennaio 2009, nel corso dell’anno lo spread è tornato ai livelli precedenti il QE1 (Thornton, 2014).
3. GLI EFFETTI DEL QE SULL’ECONOMIA REALE
Le azioni della Federal Reserve hanno avuto significative conseguenze sull’andamento dell’economia reale: a un anno dall’implementazione di ciascuna fase di acquisto titoli, la produzione industriale è aumentata dell’1%. Il programma QE 2 ha avuto l’effetto più significativo. L’occupazione ha reagito in misura meno significativa: la crescita è stata infatti pari allo 0,4%. Le politiche della Fed sembrano aver avuto successo nell’evitare che gli Stati Uniti scivolassero in una situazione simile alla Grande Depressione. Alcune analisi stimano che senza le operazioni di QE avremmo avuto una spirale deflattiva tra l’ultimo trimestre del 2008 e il primo del 2009, con un picco pari a -1% nel secondo trimestre dell’anno. Nel 2009 la perdita cumulata di PIL sarebbe arrivata a 10 punti percentuali e la disoccupazione sarebbe cresciuta dello 0,75%, raggiungendo il 10,6%. Nello scenario più negativo, il crollo del PIL avrebbe potuto raggiungere il 20% e l’inflazione sarebbe potuta rimanere in territorio negativo per un periodo di tempo più esteso (Baumeister e Benati, 2013).
In letteratura ci sono però anche valutazioni di segno opposto secondo cui gli acquisti di titoli pubblici avrebbero aumentato il PIL in maniera irrisoria, l’inflazione sarebbe cresciuta dello 0,2%, per tornare ai livelli precedenti dopo due anni e mezzo, la disoccupazione sarebbe diminuita dello 0,04% e i salari sarebbero aumentati dello 0,3%. Nel lungo periodo gli effetti sarebbero praticamente nulli (Song, 2014).
Le operazioni di QE hanno avuto un effetto anche sul fronte della distribuzione della ricchezza. Gli acquisti di titoli hanno fatto crescere i prezzi dei titoli finanziari che sono tornati sui livelli pre-crisi. Questo ha favorito i possessori di attività finanziarie. Coerentemente, tra il 2007 e il 2010 (dunque, tenendo in considerazione il solo QE 1), la percentuale di ricchezza detenuta dal decile superiore della popolazione è cresciuta dall’81,3% all’85,6%. Nello stesso periodo, il 40% più ricco della popolazione ha aumentato il proprio rapporto spese sostenute/reddito, mentre il secondo 40% l’ha diminuito (Watkins, 2014).
4. QUALI PROSPETTIVE PER IL TAPERING?
Il ritorno a politiche monetarie convenzionali sarà necessariamente accompagnato da un ridimensionamento del bilancio della Fed. Seguendo la strategia delineata dall’ex presidente Bernanke nel giugno 2013, gli MBS non sarebbero venduti (almeno momentaneamente): i titoli detenuti dal System Open Market Account (SOMA) andrebbero a maturazione entro il 2020 e i ricavi della Fed nel periodo tra 2009 e 2025 sarebbero pari 910 miliardi di dollari. Se gli MBS venissero venduti contestualmente agli altri titoli, la completa maturazione dei titoli avverrebbe nel 2019 e i ricavi diminuirebbero di oltre 65 miliardi. Tali dati si basano su ipotesi che non hanno trovato conferma ad oggi; ciononostante, essi ci forniscono un’idea del lasso di tempo necessario prima che il bilancio della Fed torni a livelli pre-crisi e ci mostra i ricavi che la stessa potrebbe ottenere dall’operazione (Carpenter et al., 2013).
La crescita del portafoglio della Fed potrebbe creare dei rischi associati a cambiamenti futuri dei tassi di interesse. Il pericolo che l’aumento dei tassi porti il valore del portafoglio dei Treasuries al di sotto del valore nominale è però inferiore al 5%. Allo stesso modo, la probabilità che i tassi di interesse a breve salgano tanto da rendere negativi i ricavi netti nel periodo 2016-2018 è solo dello 0,1% (Christensen et al., 2014).
BIBLIOGRAFIA
- Banca d’Italia. Financial stability report. N.1 (maggio). 2014.
- Barucci, Emilio, Stefano Corsaro, Carlo Milani. Il punto sulle politiche monetarie non convenzionali. www.finriskalert.it. 2014.
- Baumeister, Christiane e Luca Benati. Unconventional monetary policy and the Great Recession: estimating the macroeconomic effects of a spread compression at the zero lower bound. International Journal of Central Banking (June). 2013.
- Carpenter, Seth B., Jane E. Ihrig, Elizabeth C. Klee, Daniel W. Quinn e Alexander H. Boothe. The Federal Reserve’s balance sheet and earnings: a primer and projections. Federal Reserve. Finance and Economic Discussion Series. 2013.
- Christensen, Jens H.E., Jose A. Lopez, Glenn D. Rudebusch. Stress testing the Fed. Federal Reserve Bank of San Francisco. Economic letter n.08. 2014.
- Fawley, Brett W. e Christopher J. Neely. Four stories of Quantitative Easing. Federal Reserve Bank of St. Louis Review (January/February). 2013.
- Federal Reserve. Factors affecting reserve balances of depository institutions and condition statement of Federal Reserve banks. Statistical release (May). 2014c.
- Federal Reserve. Statement regarding purchases of Treasury securities and agency mortgage-backed securities. 2014b.
- Federal Reserve. The Federal Reserve’s response to the financial crisis and actions to foster maximum employment and price stability. 2014a.
- Federal Reserve. What are the Federal Reserve’s large-scale asset purchases? 2013.
- Gagnon, Joseph, Matthew Raskin, Julie Remache, Brian Sack. Large-Scale Asset Purchases by the Federal Reserve: did they work? FRBNY Economic Policy Review (May). 2011.
- Hancock, Diane e Wayne Passmore. How the Federal Reserve’s Large-Scale Asset Purchases (LSAPs) influence Mortage-Backed Securities (MBS) yields and U.S. mortgage rates. Federal Reserve. Finance and Economic Discussion Series no.12. 2014.
- Meinusch, Annette e Peter Tillmann. The macroeconomic impact of unconventional monetary policy shocks. Joint discussion paper series in economics n.26. 2014.
- Rogers, John H., Chiara Scotti, Jonathan H. Wright. Evaluating asset-market effects of unconventional monetary policy: a cross-country comparison. International Finance Discussion Papers no.1101 (March). 2014.
- Song, Xuetao. QE and unemployment. A financial frictions DSGE model with LSAPs and labor market search. North Carolina state university. 2014.
- Thornton, Daniel L. Has the QE been effective? Federal Reserve Bank of St.Louis. Economic synopses no.3. 2014
- US Treasury. Daily Treasury Yield Curve Rates 2012. 2014.
- Watkins, John P. Quantitative easing as a means of reducing unemployment: a new version of trickle-down economics. 2014.

Le scelte di investimento delle famiglie italiane sono state segnate dall’avvicendarsi delle crisi (subprime prima e del debito sovrano poi), come testimonia il confronto tra l’evidenza raccolta a fine 2013 e i dati relativi alla partecipazione al mercato finanziario e all’allocazione di portafoglio a fine 2007.
In particolare, nel 2013, la partecipazione dei risparmiatori ai mercati finanziari, espressa dalla percentuale di famiglie che investono in strumenti rischiosi (azioni, obbligazioni, risparmio gestito e polizze vita) si attestava al 26,3%, valore significativamente inferiore a quello del 2007, quando sfiorava il 38% (Fig. 1). È importante segnalare, tuttavia, che il dato a fine 2013 mostra un incremento di circa un punto percentuale rispetto all’anno precedente, riflettendo i segnali di ripresa sperimentati dal mercato azionario soprattutto nella seconda metà dell’anno.
In linea con il calo della partecipazione ai mercati finanziari, rispetto al periodo precedente alla crisi è diminuita anche la quota di ricchezza investita in azioni. Negli ultimi anni, infatti, la congiuntura negativa ha rafforzato la bassa propensione degli italiani all’investimento azionario, segnando una retrocessione rispetto alla parziale inversione di tendenza dovuta anche alla riduzione dei rendimenti dei titoli pubblici conseguente all’ingresso nell’Area euro.
Nel complesso, gli investitori italiani continuano a detenere portafogli poco diversificati, a prevalente componente obbligazionaria. Fanno eccezione i soggetti che si avvalgono del servizio di consulenza, che tuttavia, continuano a essere una componente minoritaria. In questo contesto, gioca a sfavore anche il basso livello di cultura finanziaria, che sembra positivamente correlato con la propensione degli individui a decidere in autonomia.
La Relazione annuale della Consob per l’anno 2013 fornisce evidenze in merito alle scelte di portafoglio delle famiglie italiane e conferma il quadro appena delineato.
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L’investimento da parte dei risparmiatori italiani in titoli di Stato domestici continua a registrare il maggior tasso di partecipazione (poco più del 12%), pur risultando a fine 2013 in calo di quasi un punto percentuale rispetto all’anno precedente, quando si era riportato sui livelli del 2007. Sono sostanzialmente stabili, invece, i tassi di partecipazione relativi alle famiglie che detengono, rispettivamente, obbligazioni bancarie (9,5% a fine 2013) e fondi comuni o Sicav (6%). È interessante osservare che il dato sulle obbligazioni bancarie è rimasto stabile anche durante la crisi, a differenza dei prodotti del risparmio gestito per i quali la partecipazione si è dimezzata. Lo stesso dicasi per la percentuale di investitori in azioni quotate italiane, che sebbene in aumento rispetto al 2012 (dal 2,9% al 3,5%) è in netto calo rispetto al 6,5% nel 2007 (Fig. 1).
L’evidenza sulla composizione del portafoglio delle famiglie è in linea con quella relativa alla partecipazione ai mercati finanziari (Fig. 2). La quota delle attività finanziarie investite in titoli di Stato si è contratta, infatti, di circa 4 punti percentuali (dal 17,1% nel dicembre 2012 al 13,7% nel dicembre 2013); nello stesso periodo l’investimento in prodotti del risparmio gestito ha mostrato un lieve aumento portandosi all’11% (+0,4 punti percentuali), mentre quello in obbligazioni (italiane ed estere) si è contratto dal 15,4 al 13,8%. Anche il dato relativo alle azioni ha subito una flessione, passando dal 5,3 al 4,2% delle attività finanziarie in portafoglio. Il possesso di depositi bancari e risparmio postale, infine, rimane stabile attorno al 47% e nettamente superiore al dato relativo al 2007, quando si attestava al 38% circa.
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La diversificazione del portafoglio continua a risultare maggiore per le famiglie che ricorrono al servizio di consulenza, in particolare alla cosiddetta consulenza MiFID (definibile come il servizio nell’ambito del quale le famiglie vengono contattate dal proprio consulente di fiducia per gli investimenti e ricevono proposte personalizzate e riferite a uno specifico strumento finanziario; Fig. 3). Il portafoglio di coloro che si rivolgono a un consulente include almeno un prodotto finanziario rischioso in circa il 75% dei casi (rispetto a circa il 7% rilevato per famiglie che decidono in autonomia).
Rimane esigua, tuttavia, la quota di famiglie che ricorrono al servizio di consulenza (8% a fine 2013 a fronte del 10% nel 2007); altrettanto contenuto è il dato relativo agli investitori che dichiarano di ricevere forme di consulenza “generica”, ossia non riferita a uno specifico strumento finanziario. Al contempo risulta elevata, e in crescita rispetto al 2007, la percentuale di famiglie che dichiarano di effettuare le proprie scelte d’investimento senza alcun supporto (38% a fine 2013).
Fig. 3 Partecipazione al mercato finanziario e diffusione del servizio di consulenza |
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Fonte: elaborazioni su dati GfK Eurisko – Multifinanziaria Retail Market. Il gruppo ‘consulenza passiva’ include le famiglie che dichiarano di avere un consulente di fiducia per gli investimenti del quale, tuttavia, non sono state contattate negli ultimi 12 mesi. Il gruppo ‘consulenza generica’ include le famiglie che hanno un consulente di fiducia, dal quale vengono contattate senza ricevere proposte di investimento relative a specifici strumenti finanziari. Il gruppo ‘servizio di consulenza MiFID’ include le famiglie che vengono contattate dal proprio consulente di fiducia per gli investimenti e ricevono proposte di investimento personalizzate e riferite a uno specifico strumento finanziario. |
La propensione a investire con il supporto di un intermediario è correlata positivamente con il livello di istruzione, sebbene la quota di investitori con diploma di laurea che hanno scelto di non avvalersi della consulenza sia aumentata, rispetto al 2007, portandosi su valori comparabili a quelli registrati per altre categorie di investitori (Fig. 4). Quasi la metà delle famiglie che ricevono consulenza MiFID, inoltre, non sa distinguere le modalità con le quali fruisce del servizio.
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L’evidenza sulla domanda di consulenza riflette in parte il basso livello di educazione finanziaria che caratterizza l’investitore italiano medio, il quale ignora anche le nozioni basilari relative alla relazione rischio-rendimento e alla diversificazione del portafoglio. È quanto emerge da un’indagine, commissionata da Consob nel 2013, relativa a: livello di conoscenze in ambito finanziario, atteggiamenti comportamentali più diffusi nella fase di scelta di investimento, situazione finanziaria in termini di stabilità e prospettive del reddito, indebitamento e adesione a forme di previdenza complementare.
Il campione include 1.020 intervistati, di 787 uomini e 233 donne, residenti per quasi il 49% al nord, per il 21% circa al centro e per il restante 30% al sud e nelle isole; poco più di un terzo ha un livello di istruzione corrispondente alla licenza media inferiore, metà ha proseguito gli studi, ma senza conseguire la laurea, il 16% circa si è laureato (e in alcuni casi ha conseguito titoli post-lauream). Il campione è stato costruito in modo tale da risultare rappresentativo di circa 20,5 milioni di famiglie italiane, per territorio, sesso, età, istruzione, professione e reddito.
Tra le domande tese ad accertare il livello di financial literacy, è stata verificata la conoscenza del concetto di inflazione, del principio di diversificazione del rischio e della relazione tra rischio e rendimento (Tav. 1).
Tav. 1 Livello di financial literacy degli investitori italiani
Fonte: GfK Eurisco; Riquadro 3 Relazione annuale Consob per il 2013. |
Il 68% degli intervistati ha dimostrato di conoscere i concetti di potere d’acquisto della moneta e di riduzione nel tempo del valore delle somme detenute; il restante 30% riferisce di non conoscere la risposta o indica opzioni errate. La percentuale di soggetti che rispondono correttamente si riduce in corrispondenza della domanda in merito alla diversificazione del rischio: solo il 53% degli intervistati ha indicato l’alternativa corretta, la quota restante non era in grado di rispondere (22%) ovvero lo ha fatto in modo errato (26%). Percentuali analoghe si rilevano con riferimento alla conoscenza della relazione tra il rischio e il rendimento di un prodotto finanziario.
La distribuzione dei soggetti per livello di conoscenza e genere mostra che la percentuale di uomini che risponde correttamente è mediamente più elevata di dieci punti rispetto alle donne. Il livello di istruzione appare correlato positivamente con la capacità di rispondere correttamente a tutte le domande: in corrispondenza della fascia di istruzione più elevata, la percentuale di soggetti che risponde correttamente alla domanda sulla diversificazione del rischio, in particolare, è di circa 35 punti più alta. Anche la distribuzione per area geografica sembra rilevante: i soggetti residenti nelle regioni meridionali e insulari che rispondono correttamente a ciascuna delle tre domande sono in media il 10% in meno di quelli residenti al centro e al nord Italia.
NOTA: Il presente intervento riprende i temi sviluppati nella Relazione annuale 2013 della Consob. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza.
Le banche centrali dell’eurozona e del Regno Unito hanno pubblicato oggi un documento congiunto allo scopo di rilanciare il mercato europeo degli Asset-Backed Securities (ABS). Tra le proposte delle due istituzioni vi sono:
– la creazione di principi di semplicità e trasparenza, grazie ai quali alcune transazioni verrebbero garantite come ‘qualifying securitisations’;
– ulteriori discussioni per armonizzare gli standard a livello di UE;
– la divulgazione da parte delle agenzie di rating di ulteriori informazioni, così da superare i limiti connessi alla norma secondo cui il rating degli ABS non può essere superiore al rating del paese.
Per ulteriori informazioni, leggere qui.
L?EIOPA ha pubblicato aggiornamenti sulla tassonomia DPM e XBRL. Ulteriori aggiornamenti saranno possibili in futuro.
Per ulteriori informazioni, cliccare qui.
La European Banking Authority (EBA) ha aperto una consultazione sugli standard per il calcolo dei fondi necessari per le esposizioni ai rischi di credito e di mercato. La consultazione si concluderà il 19 agosto 2014.
Gli standard forniranno, tra l’altro: portfolio di riferimento, costruiti sull’esperienza pregressa; definizioni e altre informazioni che le banche dovranno fornire; elementi di riferimento su cui basare il calcolo suddetto.
CPSS e IOSCO hanno pubblicato il primo aggiornamento sull’implementazione (livello 1) dei principi per le infrastrutture nei mercati finanziari (Principles for financial market infrastructures, PFMIs). Il livello 1 è costituito dall’autovalutazione delle singole giurisdizioni circa l’applicazione delle nuove norme.
Rispetto al primo report (agosto 2013) sono stati compiuti importanti progressi, che variano a seconda del tipo di infrastrutture considerate.
Entro la fine dell’anno sarà inoltre disponibile un primo report circa il secondo livello di implementazione; la valutazione verrà compiuta direttamente da CPSS e IOSCO.
La BCE ha aperto una consultazione pubblica nell’ambito dei contributi da pagare per sostenere la vigilanza unica.
La supervisione costerà mediamente 260 milioni all’anno: le banche saranno tenute a pagare una cifra compresa tra i 2000 e i 15 milioni di euro. Tra i temi della consultazione, il calcolo dell’ammontare per ogni singola banca e i metodi di raccolta.

Executive summary
L’Autorità Bancaria Europea ha diffuso alcuni parametri che sintetizzano il rischio collegato all’attività bancaria con l’obiettivo di aumentare la trasparenza riguardo allo stato di salute dei diversi mercati bancari europei. Analizzando queste informazioni emerge un‘ampia divaricazione tra paesi periferici e paesi “forti”.
La disclosure dei parametri di rischio
La comparabilità delle statistiche tra diversi paesi europei circa il livello di rischio insito nell’attività bancaria tradizionale di finanziamento risente di innumerevoli problemi. Un primo passo per offrire una definizione più omogenea di come classificare un credito deteriorato è stato compiuto dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che, in vista dell’asset quality review (AQR) e degli stress test, ha elaborato un apposito documento guida (EBA, 2013).
In attesa che la Banca Centrale Europea (BCE) diffonda delle statistiche armonizzate su questo tema, alcune prime indicazioni sullo stato di salute delle diverse industrie bancarie europee è desumibile da un documento recentemente diffuso dall’EBA (2014). Considerando un campione rappresentativo di 55 banche europee, che adottano sia criteri di valutazione del rischio standard sia criteri basati su rating interni, l’EBA è stata in grado di calcolare, a livello di singolo paese e differenziando tra clientela corporate e retail, il tasso medio di default e il tasso di perdita.
Il tasso di default è definito come il rapporto tra il flusso annuo di sofferenze, al lordo degli accantonamenti, e l’ammontare totale di impieghi in bonis ad inizio anno.
Nel grafico 1A è riportato il suo andamento per la clientela corporate in Italia e in due gruppi di paesi: i cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e i paesi core (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda). Dal grafico si rileva come l’Italia abbia mostrato un andamento decisamente crescente negli ultimi anni, passando da un tasso medio di default del 2% del 2010 a quello del 5,5% circa del primo semestre 2013. Ancor più marcata è stata la dinamica nei PIGS, il cui tasso di default medio sulle imprese è raddoppiato, passando dal 5% del 2009 al 10% del 2013. Sostanzialmente stabile è invece il quadro osservato nei paesi core, il cui tasso di default si è attestato intorno all’1,5% per tutto il periodo.
Grafico 1. Tasso di default
Note: PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna; paesi core: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda.
Per PIGS e paesi core il valore medio è ponderato in base al totale attivo del relativo paese. Dato parzialmente stimato per la Grecia a dicembre 2011 e giugno 2012.
Fonte: elaborazioni dell’autore su dati EBA (2014) e BCE.
Passando ad esaminare la clientela retail, per l’Italia si osserva un andamento inizialmente decrescente fino al 2010-11, seguito da un’inversione di tendenza che ha riportato il grado di rischiosità sui livelli osservati nel 2009, pari a circa il 3% (grafico 1B). Nei paesi core si è osservata invece una leggera evoluzione crescente, che ha portato il tasso di default dall’1,1% medio del 2009 all’1,4% della prima metà del 2013. Con riferimento ai PIGS, l’andamento del tasso di default mostra alcune discontinuità tra il 2010 e il 2012. Il primo salto osservato nel 2010 è legato essenzialmente all’entrata a regime della bad bank in Irlanda, la National Asset Management Agency (NAMA), che ha spinto le banche irlandese a riconoscere il default di circa un quinto degli impieghi erogati alla clientela retail. La successiva impennata dei default nei PIGS osservata nel giugno del 2012 è invece attribuibile ad un’altra bad bank, quella costituita in Spagna (Sareb – Sociedad de Gestión de Activos procedentes de la Reestructuración Bancaria; per maggiori dettagli si veda Milani, 2013): dal 2011 al 2012 il tasso di default delle banche spagnole è passato dall’1% al 4,5%.
Grafico 2. Tasso di perdita
Note: PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna; paesi core: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda.
Per PIGS e paesi core il valore medio è ponderato in base al totale attivo del relativo paese. Dato parzialmente stimato per la Grecia a dicembre 2011 e giugno 2012.
Fonte: elaborazioni dell’autore su dati EBA (2014) e BCE.
Il secondo degli indicatori considerati dall’EBA, il tasso di perdita, è definito come il rapporto tra gli accantonamenti effettuati sui nuovi default e il flusso di nuove sofferenze (al lordo degli accantonamenti) da inizio anno. Tale indice offre quindi un’indicazione di quanto “fieno in cascina” le banche stanno accumulando per far fronte alle sofferenze su crediti registrate nell’anno.
Riguardo alla clientela corporate, per l’Italia si osserva un andamento nettamente decrescente (grafico 2A). Una simile dinamica si osserva anche nei paesi core, anche se questi hanno mantenuto un atteggiamento leggermente più prudenziale. Anche nei PIGS la dinamica del tasso di perdita è stata decrescente, anche se meno marcata rispetto a Italia e paesi core, da cui scaturisce un livello medio osservato a giugno 2013 superiore di circa 6,5 e 4 punti percentuali, rispettivamente.
Con un andamento più discontinuo si è invece mosso il tasso di perdita sulla clientela retail (grafico 2B). A differenza di quanto osservato per la clientela corporate, nel caso del retail i dati relativi al giugno 2013 mostrano per l’Italia un valore intermedio tra quello dei PIGS e dei paesi core. Sempre a giugno 2013 si può rilevare come il tasso di perdita sul retail sia superiore a quello del corporate. La minore incidenza di garanzie reali sul comparto corporate, nonché il più alto tasso di default osservato nel grafico 1A, dovrebbe però spingere a un maggior tasso di perdita rispetto al retail, aspetto che si verifica solo con riferimento ai paesi core (per i PIGS il tasso di perdita tra le due tipologie di clientela è sostanzialmente lo stesso).
Conclusioni
La rischiosità dei finanziamenti erogati dalle banche europee mostra una dinamica crescente (in misura significativa) nei paesi periferici, lasciando sostanzialmente immutato il contesto per i paesi core. In Italia i problemi si concentrano soprattutto sulla clientela corporate.
A fronte della maggiore rischiosità osservata, le banche italiane, insieme a quelle degli altri paesi periferici, non sembrano aver adottato politiche di accantonamento particolarmente prudenti fino alla prima metà del 2013. Le misure straordinarie adottate alle fine del 2013 in vista dell’AQR e degli stress test potrebbero però aver migliorato questo quadro (si veda Barucci, Corsaro e Milani, 2014), riportando tutte le banche europee verso un sentiero di maggiore prudenza e robustezza.
- Barucci E.,S. Corsaro, C. Milani (2014) Asset quality review e stress test. Cosa ci aspetta?, FinRiskAlert.it.
- EBA (2013) EBA publishes final draft technical standards on NPLs and Forbereance reporting requirements.
- EBA (2014) Annex to EBA Risk Dashboard. Q1 2014: Risk parameters disclosure of EU banks.
- Milani C. (2013) Bad Bank, un bell’esempio, LaVoce.info.