CoCos (I): caratteristiche e mercato
di Francesca Arosio, Emilio Barucci, Luca Del Viva

Mag 26 2014
CoCos (I): caratteristiche e mercato  <small><small><I> di Francesca Arosio, Emilio Barucci, Luca Del Viva </I></small></small>

I CoCos (contingent capital) rappresentano una risposta alla crisi finanziaria del 2007-08. La crisi ha mostrato come sia difficile per le banche reperire capitali sotto condizioni di stress. Allorché molte banche hanno conosciuto problemi sul fronte della loro solidità patrimoniale, gli Stati sono dovuti intervenire con operazioni di diversa natura che hanno finito per legare tra loro i bilanci delle banche e quelli degli stati. Una liaison che ha portato dalla crisi dei mutui subprime a quella dell’euro. Per rispondere a questi problemi, si è rafforzata l’esigenza di ricondurre la gestione delle crisi (prima dell’evento default) nell’ambito ‘‘privato’’ dei claim holders dell’impresa, Squam Lake working group (2009). L’esperienza della crisi di Cipro e poi quanto previsto dalla Banking Union sul bail in delle banche vanno in questa direzione. Il settore privato già si era mosso in questa direzione con la diffusione degli strumenti ibridi quali i contingent capital. In questo primo articolo ne spieghiamo il funzionamento e il mercato rimandando ad un successivo contributo l’indagine della loro valutazione.

1.     CoCos: Caratteristiche

I Contingent Convertibles (CoCos) sono strumenti ibridi che vengono emessi da banche e altri intermediari finanziari. Sono strumenti di debito che in situazione di stress (prima che l’azienda vada in default) possono essere utilizzati per assorbire le perdite, ridurre il livello di debito e/o rafforzare il patrimonio dell’istituto bancario.

Si tratta di strumenti di debito subordinato che a determinate condizioni (di stress ma non di default) possono essere convertiti in equity (CE CoCo) e/o cancellati parzialmente (PWD CoCo). L’obiettivo dei CoCos è dunque quello di fornire capitali freschi (convertendo il debito) o di ridurre il livello di debito durante periodi di crisi. In momenti di stress, l’emissione di nuove azioni o di prestiti obbligazionari può essere molto onerosa, nel caso di CE CoCo non siamo di fronte a nuovi capitali quanto ad un debito che diviene azioni, e quindi diviene disponibile per coprire eventuali perdite, nel caso di PWD CoCo siamo di fronte ad una diminuzione degli impegni sul fronte del debito.

I CoCos sono classificati a seconda di tre caratteristiche: i) trigger di conversione; ii) meccanismo di loss absorption, iii) conversion ratio.

Trigger di conversione

La conversione dei CoCos può avvenire in via automatica, a discrezione del supervisore o dell’emittente. La conversione automatica si attiva quando il capitale della banca scende sotto una prefissata frazione dei suoi Risk-weighted Assets (RWA). Il capitale può essere misurato rispetto al valore di libro o al valore di mercato. Il trigger rispetto al valore di libro del capitale è tipicamente stabilito in termini di Common Equity Tier 1 (CET1) su RWA. L’efficacia di questa tipologia di trigger dipende dalla frequenza con la quale questi ratios di capitale vengono calcolati, dalla affidabilità e robustezza del loro calcolo, soprattutto con riferimento ai modelli interni utilizzati. Triggers fondati sul valore di libro possono non essere tempestivi nel fotografare la reale situazione della banca. Un trigger fondato sul valore di mercato permette di superare questi inconvenienti ma espone la banca a eventuali manipolazioni di mercato o più semplicemente all’inefficienza dello stesso, Glasserman e Wang (2009). La conversione discrezionale, invece, è attivata in seguito al giudizio espresso dal regolatore sulla solidità finanziaria dell’istituzione bancaria (point of non viability, PONV). Il supervisore può attivare il meccanismo di assorbimento delle perdite se ritiene che questa operazione permetta di prevenire l’insolvenza dell’emittente. Una valutazione nelle mani del supervisore permette di superare i problemi di mancanza di tempestività o inaffidabilità legata ai triggers fondati su valori di mercato o di libro. L’inconveniente di questo meccanismo è rappresentato dall’incertezza in merito alla sua attivazione, un elemento che può incidere negativamente sulla valutazione dello strumento. Infine in alcune realtà, come quella italiana, si osservano CoCos che vengono convertiti in equity per decisione dell’emittente.

Al fine di alleviare effettivamente l’istituzione in difficoltà è essenziale che la conversione avvenga tempestivamente e sufficientemente in anticipo rispetto al suo stato di insolvenza. Un CoCo può avere uno o più trigger, anche di tipo diverso. In caso di trigger multipli, il meccanismo di loss absorption è attivato in sequenza.

Meccanismo di “loss absorption”

Un CoCo può alleviare la banca emittente in due modi: con la conversione in equity (CE), che aumenta il livello del CET1 mediante la conversione in azioni a un predeterminato conversion rate, mediante il write-down di tutta o di una parte del principal. Nel primo caso lo strumento assomiglia ad un’obbligazione convertibile di tipo callable in quanto i possessori di CoCos ricevono azioni in cambio dello strumento di debito. E’ bene sottolineare che la conversione trasforma la seniority di un claim, non fornisce nuove risorse finanziarie, cambia la sua natura, rendendola più junior, questo passaggio migliora la qualità del capitale regolamentare, rende le risorse capaci di coprire eventuali perdite e riduce il livello di debito. Nel caso di un PWD CoCO, si osservano somiglianze con una ri-negoziazione automatica del debito: i possessori di CoCos si vedono ridurre il valore facciale del loro debito. In alcuni casi si prevede la sospensione del pagamento della cedola.

Conversion ratio

Nel caso conversione in equity (CE), il conversion ratio definisce il numero di azioni che il titolare di CoCo riceverà in cambio delle obbligazioni. La conversione può avvenire secondo due diverse modalità: i) ai prezzi di mercato (delle azioni e dei bond) nell’istante in cui avviene la conversione, Barucci e Del Viva (2011); ad un prezzo prefissato, Bolton e Samama (2012). La prima opzione potrebbe comportare un’elevata diluizione per gli azionisti in quanto è assai probabile che il prezzo delle azioni non sia elevato al momento della conversione. L’eventuale diluizione potrebbe portare gli azionisti a mettere in atto azioni per evitare la conversione. Al contrario, fondare la conversione su un prezzo stabilito a priori limita l’effetto diluitivo e il conseguente incentivo per gli azionisti a evitare la conversione dei titoli. Una via si uscita a questi problemi è fornita dalla possibilità di stabilire un prezzo di conversione pari al massimo tra il valore delle azioni al momento della conversione e un floor prefissato.

2.     Profili normativi e fiscali

Lo sviluppo del mercato dei CoCos è strettamente legato al trattamento normativo sia dal punto di vista regolamentare/di vigilanza che fiscale.

Secondo Basilea III, i CoCos potrebbero qualificarsi come capitale Additional Tier 1 (AT1) o Tier 2 (T2). L’attuale struttura di Basilea III prevede due elementi chiave per valutare gli strumenti finanziari ai fini regolamentari: (i) un requisito di attivazione PONV (point of non viability), che si applica a tutti gli strumenti AT1 e T2, (ii) un requisito di going-concern contingent capital, che si applica solo agli strumenti AT1 classificati come passività.

L’inclusione delle clausole di PONV nei CoCo è motivata principalmente da considerazioni di ammissibilità al capitale regolamentare. La scelta del livello di trigger è guidata dal trade-off tra considerazioni di ammissibilità al patrimonio di vigilanza ed il costo di emissione: tanto maggiore è il trigger tanto più onerosa sarà l’emissione. Al fine di soddisfare requisiti di capitale sempre più elevati, negli ultimi anni le banche hanno emesso sempre più spesso CoCos con trigger points pari o superiori al minimo prefissato per soddisfare il requisito di going concern contingent capital, ed essere così ammessi al capitale AT1. Sotto Basilea III (direttiva CRDIV), tale limite è pari al 5,125% in termini di CET1/RWA. Nel quadro di Basilea III, tutti gli strumenti AT1 devono essere perpetui. Per questo motivo oltre un terzo dei CoCo bonds emessi finora non hanno data di scadenza. La regolamentazione non prevede un meccanismo automatico tra attivazione del trigger per i CoCos e impossibilità di pagare dividendi, non si stabilisce neppure se il write down dei PWD CoCo debba essere permanente o possa essere temporaneo.

In aprile la BCE ha stabilito che i CoCos possono essere utilizzati per colmare un eventuale deficit patrimoniale che risulti dall’Asset quality review nello scenario di base degli stress test. Per la BCE gli strumenti AT1 potranno essere usati dalle banche per rafforzare il capitale sino all’1% dei loro RWA, con preferenza per quelli che si trasformano prima in capitale in caso di crisi e, dunque, i più rischiosi per i detentori. Infatti gli strumenti con livello di conversione sotto il 5,5% non potranno essere usati, quelli tra il 5,5 e il 6% solo fino allo 0,25%; quelli tra 5.5% e 7% potranno valere fino allo 0.5%, quelli con un trigger superiore al 7% potranno valore fino all’1% del deficit di capitale. La possibilità di bail in prevista dall’Unione bancaria dovrebbe dare un ulteriore sviluppo all’emissione di CoCos.

Lo sviluppo del mercato dei CoCos è stato limitato anche dall’incertezza in merito alla deducibilità delle loro cedole, in alcuni paesi questo era previsto in altri no. Vale la pena di osservare che il trattamento fiscale dei CoCos influisce significativamente sul costo degli strumenti per le banche emittenti. Vi è ancora una notevole incertezza, stime preliminari suggeriscono che circa il 64 % dei CoCo bond hanno coupon fiscalmente deducibili. Problemi di non deducibilità possono emergere soprattutto nel mercato statunitense. Nel dicembre 2013, il Parlamento ha approvato la deducibilità fiscale delle cedole di questi titoli.

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3.  Il mercato dei CoCos

Il mercato dei CoCos è ancora relativamente piccolo, ma sta crescendo e ci si aspetta che cresca ulteriormente nei prossimi anni. La prima emissione di contingent capital è stata quella di Lloyds nel Novembre 2009. A seguire abbiamo le emissioni di Credit Suisse, Rabobank, Barclays, UBS. Le banche inglesi sono state le più attive, avendo emesso più di 21 miliardi di dollari di questi strumenti ibridi. A seguire si collocano le banche svizzere, con circa 15 miliardi di dollari. Le banche svizzere hanno emesso questi strumenti in quanto essi sono in linea con il nuovo regime regolamentare che richiede loro di detenere il 9% dei RWA in strumenti “loss-absorption”. A settembre 2013, le emissioni di CoCos a partire dal 2009 ammontavano a 70 miliardi di dollari, nello stesso periodo le banche avevano emesso 500 miliardi di debito subordinato non Cocos e oltre 4 trilioni di debito unsecured. Secondo una ricerca di Barclays, nel primo trimestre di quest’anno il mercato dei CoCos è cresciuto del 25% su base annua: i 17 bond AT1 emessi sul mercato di 11 emittenti hanno raccolto 47 miliardi.

Le prime emissioni di CoCos prevedevano soprattutto il meccanismo della conversione in equity. La ragione principale di questa tendenza è che i CE CoCos sono meno onerosi rispetto ai PWD Cocos (vedi il secondo contributo). Nel corso del tempo, la frazione delle emissioni di PWD CoCos è cresciuta, la ragione di questa tendenza è da rintracciare nell’interesse crescente verso questo strumento da parte degli investitori a reddito fisso i cui mandati spesso impediscono loro di partecipare ai CE CoCos. Come risultato, i PWD CoCos hanno rappresentato più della metà delle emissioni di CoCos totali nel 2013.

La domanda di questi titoli è giunta principalmente da investitori retail e da piccole banche private. I grandi investitori istituzionali sono invece entrati in misura limitata in questo mercato, almeno fino alle fine del 2013. La domanda è arrivata in particolar modo da banche private in Asia e Europa, a seguire da investitori istituzionali americani, alla ricerca di classi di investimento alternative e, infine, da istituzioni finanziarie europee non bancarie.

Una delle ragioni che ha limitato il mercato dei CoCos risiede nell’assenza di un insieme completo di rating creditizi. I mandati di molti investitori istituzionali impediscono loro di detenere strumenti finanziari che non possiedano un rating o che abbiano rating al di sotto di un certo livello. Le agenzie di rating sono state riluttanti nel classificare questi strumenti a causa dell’eterogeneità nel loro trattamento regolamentare all’interno delle varie giurisdizioni e della loro complessità. Inoltre vi è la preoccupazione che gli high-trigger CoCos possano portare ad invertire la tradizionale gerarchia tra gli investitori: può accadere che i titolari di questi titoli incorrano in perdite superiori  rispetto a quelle subite dagli azionisti. Infine la presenza di trigger discrezionali crea incertezza riguardo alla loro valutazione.

UniCredit è stata la prima fra gli istituti di credito italiani a fare ricorso a questi strumenti nel Luglio 2010. La banca ha emesso un bond ibrido, capace di impattare sul Tier 1, con un tasso fisso del 9,375% per i primi dieci anni e la facoltà per l’emittente di un esercizio anticipato a partire dal decimo anno, previa autorizzazione di Banca d’Italia. Il trigger, dato dal total capital ratio, fu fissato al 6%. Il valore dell’emissione era di 500 milioni di euro. Intesa Sanpaolo ha emesso un titolo analogo nel settembre dello stesso anno per un controvalore di un miliardo di euro, con cedola del 9,5% per i primi 5 anni e un trigger dato dal total capital ratio al 6%. Nel Marzo 2014 Unicredit si è riproposta sul mercato con l’emissione del primo bond ibrido di tipo Additional Tier 1 in Italia. Si tratta di un’obbligazione perpetua in dollari, callable dopo il decimo anno con un trigger al 5.125% di core equity Tier 1. In caso di raggiungimento di tale soglia, verrà interrotto il pagamento delle cedole fino a che il Tier 1 non si riporterà sopra il 5.125%.

 

Fonti:

Avdjiev et al. (2013). Stefan Avdjiev, Anastasia Kartasheva e Bilyana Bogdanova. “CoCos: a primer”. BIS Quarterly Review, Sepetember 2013.

Barucci, E. and Del Viva, L. (2011). Dynamic Capital Structure and the Contingent Capital Option,Annals of Finance, 2013, vol. 9, issue 3, pages 337-364.

Bolton, Patrick and Samama, Frédéric (2012) Capital access bonds, Economic Policy, 277-317.

BCBS (2010). Basel Committee on Banking Supervision. “Basel III: A global regulatory framework for more resilient banks and banking systems” December 2010 (rev June 2011) .

Glasserman, Paul e Wang, Zhenyu. (2009) Valuing the Treasury’s Capital Assistance Program. Federal Reserve Bank of New York, Staff Report no.413.

Squam Lake working group (2009) An expedited resolution mechanism for distressed financial firms: regulatory hybrid securities,  working paper.

 

 

 

 

L’ESMA ha avviato il processo di consultazione per l’attuazione della MiFID II e del Regolamento MiFIR.

Mag 23 2014

L’ESMA ha avviato il processo di consultazione per l’attuazione della MiFID II e del Regolamento MiFIR. Questo rappresenta il primo passo nel processo di traduzione dei requisiti MiFID II/ MiFIR in  norme e regolamenti applicabili nella pratica ed idonei ad affrontare gli effetti della crisi finanziaria, a migliorare la trasparenza dei mercati finanziari e rafforzare la tutela degli investitori.

Il termine per le risposte ad entrambi i documenti è il 1 agosto 2014.

 

Comunicato stampa

Consultation Paper on MiFID II/MiFIR

Discussion Paper on MiFID II/MiFIR

Master in European Economic Governance (MEEG)

Mag 22 2014

Il Master di secondo livello in European Economic Governance (MEEG), la cui prima edizione si svolgerà nell’a.a. 2014-’15, è parte dell’attività della LUISS School of European Political Economy (SEP). Scopo della SEP è di analizzare il funzionamento e la governance economica della Unione europea (EU) e dell’Unione economica e monetaria europea (EMU ) anche allo scopo di offrire soluzioni di policy ai principali problemi aperti. Una caratteristica, propria a tutti gli insegnamenti del MEEG, è perciò di combinare aspetti teorici, istituzionali e di politica micro- e macro-economica.

Il MEEG offre un diploma internazionale in Economics e ha la durata di un anno.

Il programma di Master è suddiviso in due semestri. I corsi del primo semestre affrontano i principali problemi di governance e di sviluppo dell’EU e dell’EMU, seguendo un approccio prevalentemente macroeconomico; l’oggetto di studio richiede, peraltro, l’apporto di discipline giuridiche, storiche e politologiche. I corsi del secondo semestre sono, invece, focalizzati sui principali problemi di regolamentazione dell’EU e dell’EMU; l’oggetto di studio è, quindi, microeconomico e di taglio empirico-istituzionale.

Per seguire con profitto i corsi del MEEG è necessaria la padronanza di alcuni strumenti analitici di base; i partecipanti, selezionati per il Master ma privi di tali strumenti, dovranno seguire due pre-corsi. Inoltre, tutti i partecipanti dovranno seguire un corso per la gestione di programmi informatici di elaborazione di dati (Math-Lab) e un corso per le tecniche di applicazione a fondi europei (Access to European funds for investment R&D, and cohesion).

Per maggiori informazioni

http://sep.luiss.it/opencms/opencms/it/master/MEEG-00001/

 

Lo Standardized Approach per Credit Counterparty Risk
di Michele Bonollo, Daniele Marazzina

Mag 19 2014
Lo Standardized Approach per Credit Counterparty Risk   <small><small><I> di Michele Bonollo, Daniele Marazzina  </I></small></small>

Executive Summary

In data 31 marzo il Basel Committee on Banking Supervision ha presentato il final standard dal titolo ”The standardised approach for measuring counterpary credit risk exposure” [1]. Il documento inerente ad un approccio non dipendente da scelte di modello [Standardised Approach (SA)] per misurare l’esposizione in caso di default per il counterparty credit risk (CCR). Si tratta sempre di un tema di valutazione dei derivati, come per il documento sugli AVA di EBA uscito nella stessa data, e di cui si è parlato in [7,8]. Mentre però il tema AVA riguarda le valutazioni di bilancio, e di conseguenza l’applicazione di filtri sul patrimonio, in questo caso la grandezza di interesse è l’EAD (Exposure At Default), cioè il valore che potremo definire ”medio prudente” del derivato, quindi del credito, nello scenario di un possibile default lungo l’orizzonte temporale 0-1 anno del framework di Basilea. Il nuovo approccio standardizzato (SA-CCR) sostituisce sia l’attuale metodo dell’esposizione corrente (CEM) che il vecchio ”metodo standard” (SM) nel quadro di adeguatezza patrimoniale, e sarà operativo dal 1 gennaio 2017.

1 Quadro Attuale

Se la disciplina degli AVA è in qualche modo “nuova”, è utile inquadrare lo Standardized Approach per il counterparty risk all’interno delle tassonomie del framework di Basilea e delle evoluzioni storiche. Procediamo quindi con alcuni punti salienti:

  • il rischio di controparte (CCR) , inteso in senso stretto, riguarda il default della controparte a scadenza, e quindi il rischio che un Mark to Market (MtM, si noti che nell’uso fair value e MtM sono pressoché sinonimi) positivo per la banca, quindi una esposizione creditizia, non venga riscosso. Pertanto, nelle  componenti di rischio del I pilastro di Basilea, e relativi vincoli di dotazione patrimoniale, il CCR appartiene al Rischio di Credito.
  • la tipicità del CCR rispetto alla generale categoria di appartenenza è la complessità della stima della EAD, cioè del MtM corrente nel momento dell’eventuale default. La maggiore complessità è legata sia alla stocasticità delle evoluzioni future dell’esposizione creditizia (si pensi per confronto al piano di ammortamento deterministico di un mutuo) sia al fatto che in un derivato (e.g. uno swap) o in un portafoglio di derivati la banca e la sua controparte possano alternarsi nel tempo nel ruolo di creditore e di debitore, in relazione al fatto che il MtM abbia segno positivo o negativo
  • nel framework di Basilea, il requisito patrimoniale R per il rischio di credito (e quindi anche per il rischio di controparte) si calcola – per le banche che utilizzano modelli interni – con la funzione di ponderazione, quindi R = EAD ´ LGD ´ f (PD,M,r). In tale funzione (si veda [4] per comprenderne il significato) i parametri di maturity M e correlazione r sono assegnati dal comitato, mentre le banche stimano con propri modelli le probabilità di default PD e loss given default LGD. Per le banche che non utilizzano modelli interni in modo più semplice si ha R = EAD ´ FC ´ FP ´ 8%.  Il fattore di conversione creditizia FC e il fattore di ponderazione FP riflettono mediante griglie tabellari il rating della controparte e caratteristiche del prodotto e delle sue garanzie. Per motivi di spazio rimandiamo alla Circolare 263 di Banca d’Italia per tutti i dettagli.
  • la validazione del rischio di controparte consiste nella autorizzazione da parte della banca centrale (Banca d’Italia fino a ottobre 2014, BCE nel seguito) concessa alla banca di potere usare modelli interni per la determinazione della EAD ai fini del calcolo del requisito R. A oggi vi sono in Italia due banche in corso di validazione, molte meno di quanto è avvenuto sul rischio di mercato o sul rischio di credito “generale”, per la complessità della materia e i vantaggi patrimoniali (i.e. riduzione di R) limitati o di difficile quantificazione

Quanto sopra è il punto di partenza. In Basilea 2 (e anche in Basilea 3, fino alla data di decorrenza del nuovo framework), la determinazione della EAD segue 3 diversi metodi.

Il primo e largamente più diffuso è il metodo delle esposizione corrente (CEM – Current Exposure Method), per cui si ha che

EAD = Max(MtM,0) + Add-On

Viene quindi prudenzialmente applicato un vincolo di non negatività al MtM corrente, e poi si applica un add-on per tenere conto di possibili evoluzioni future che possano far aumentare l’esposizione. L’add-on deve essere quindi agganciato alle volatilità tipiche dell’underlying e del payoff. Riportiamo qui la tabella delle percentuali del nozionale con cui si calcola l’add-on.

file articolo Bonollo Marazzina

Il secondo metodo, detto metodo standard (SM), poco utilizzato, si basa su greche e sensitivities, cioè su profili di evoluzione del MtM approssimato mediante scenari conservativi sui fattori di rischio (underlying, tassi risk-free, …) e mediante sensitivities dell’impatto su MtM futuri.

Infine il metodo dei modelli interni prevede il calcolo dell’EPE, Expected Positive Exposure, una media probabilistico-temporale delle evoluzioni future del MtM, irrobustita da vincoli conservativi di non decrescenza nel tempo dei profili del MtM.

Si tratta di un calcolo molto complesso nel senso dello sforzo computazionale, perché richiede in sostanza di valutare MtM in molti time buckets futuri e ancora più numerosi scenari simulati. Si veda [5].

2 Il nuovo assetto SA-CCR

Il paper 279 [1] del comitato di Basilea è frutto di un percorso lungo quasi un anno, iniziato con il paper 254 [2].

Scopo generale di questa importante revisione è quello di eliminare il metodo standard (SM) e di trasformare il modello CEM in un modello maggiormente risk sensitive, nel senso di:

a)      determinare in modo più preciso le possibili evoluzioni del MtM;

b)      tenere conto in modo più accurato degli accordi di collateral e netting diffusi sul mercato.

Nel paper 254 il nuovo metodo era definito NIMM, Non-Internal-Model-Method, ora modificato in SA, Standardized Approach.

Il punto di partenza generale è dato dalla formula:

EAD = alpha * (RC + PFE)

dove:

  • alpha = 1.4 è un fattore conservativo previsto anche nell’approccio EPE;
  • RC = replacement cost, tiene conto del valore corrente (MtM), con vincoli di non negatività, e del valore del collateral detenuto e degli accordi di compensazione e marginazione;
  • PFE = potential future exposure, incorpora in modo rigoroso e prudente, e più realistico dell’add-on, la volatilità futura del MtM.

Se sul piano definitorio è tutto piuttosto semplice, l’impianto di calcolo effettivo stabilito dal paper è viceversa molto articolato, specie per la componente PFE.

Ci limitiamo a evidenziare alcuni punti fondamentali riguardanti il PFE:

  • i deals sono attribuiti a 5 diverse asset class: equity, interest rate, forex, commodity, credit;
  • a livello di deal (trade level nel linguaggio del comitato) si effettuano le seguenti trasformazioni: notional ® adjusted notional ® effective notional, mediante un supervisory delta;
  • infine all’effective notional si applica un supervisory factor SF (concettualmente simile agli add-on del CEM) per ottenere il PFE.

Tutto quanto sopra sarebbe semplice se una banca avesse un singolo deal, quindi appartenente, ad esempio, a una singola asset class, o a un singolo accordo di collateral – in altri termini se ogni calcolo fosse a un solo “livello”. Nella realtà si deve tenere invece conto di numerosi passi in cui si effettuano i calcoli e le relative aggregazioni/compensazioni. Tra il livello più alto, asset class, e il trade, sono previsti (almeno) gli hedging set e le categories, all’interno dei quali le aggregazioni delle posizioni hanno metodi diversificati.

Nel caso equity, ad esempio, è previsto un singolo hedging set ed è permessa una perfetta compensazione dell’effective notional (di fatto, si tratta del delta equivalent) all’interno dello stesso single name azionario, con applicazione però di un modello con rischio sistematico e specifico a 1 fattore per aggregare, mediante opportune correlazioni, le posizioni. Con ulteriori differenze tra strumenti azionari vs. indici e fondi.

Nel caso interest rate è invece previsto un hedging set per ogni diversa valuta (USD, EUR, GBP), e ognuno di essi è diviso in 3 maturity buckets: inferiore a 1 anno, fra 1-5 anni, e superiore a 5 anni. Tra diversi maturity buckets, un parziale off set è ammesso in base a ulteriori formule.

Tra diverse asset class e verso diverse controparti non è ammessa alcuna compensazione, quindi in modo conservativo la EAD globale del portafoglio si forma con approccio building block come somma delle quantità per asset class / controparte.

Per tenere conto in modo più preciso del rischio effettivo, sono previsti una serie di fattori di correzione e di bounds all’interno delle formule per tenere conto del MPOR, Margin Period of Risk, cioè delle frequenze di marginazione sugli accordi di collateral, e per impedire che il risultato finale sia inferiore al modello interno EPE, che determinerebbe un disincentivo allo sviluppo di tali modelli.

Da ricordare che il nuovo framework ha alcuni effetti anche per i modelli interni di classe EPE: è infatti abrogato lo short cut method, su cui alcune banche medio grandi italiane si erano orientate forse con troppa rapidità, che consente di stimare l’esposizione futura in base alle statistiche degli MtM passati, senza obbligo di full revaluation dei deals.

3 Impatti e punti critici

In generale, un qualunque modello di classe standard dovrebbe cercare un buon trade-off tra la sua semplicità, per potere essere adottato anche da banche con risorse sul risk management e sui sistemi informativi limitati, e la proprietà di essere risk sensitive, cioè determinare figure di rischio e di requisito patrimoniale R di ampiezza effettiva rispetto ai rischi nei portafogli.

Dalla sua prima versione nel paper 254, il nuovo modello ha raccolto diverse critiche, evidenziate dai diversi contributi nella fase di consultazione, sia da singole banche sia da associazioni di categoria e internazionali, sia veda come esempio [3].

Tra i diversi punti deboli, si evidenzia già il primo step, vale a dire il mapping verso una asset class. Vi sono nel mercato diversi prodotti ibridi, cioè dipendenti da un paniere per esempio di divise e azionario. L’attribuzione al fattore di rischio primario è accettabile come principio (paragrafo 152), ma di applicazione non ovvia nella pratica. Oppure la specificazione ancora approssimativa di un rischio importante, come il rischio di volatilità (vega). Se infatti il paper 254 rinviava alla consultazione la tematica, il nuovo paper, paragrafo 163, indica in modo molto sintetico che il supervisory factor SF per calcolare l’add-on debba essere 5 volte rispetto a quello delle stessa asset class riferito al rischio usuale sul sottostante. In concreto, un variance swap azionario dovrebbe avere un fattore 5 volte maggiore della corrispondente opzione azionaria plain.

Ricordiamo che il MtM di un derivato si può modificare in modo rilevante anche solo per modifica delle volatilità di mercato e a nostro parere il nuovo approccio attuale SA-CCR avrebbe dovuto meglio trattare la fattispecie.

Altre fragilità illogiche sono state risolte nella fase consultiva. Nella determinazione della esposizione (delta equivalent) verso un underlying mediante moltiplicazione tra nozionali adjusted e delta, era previsto un delta pari ai valori {0.5, -0.5}, cioè dei soli casi at the money per una loro (presunta) maggiore rischiosità, e quindi incorporare in modo corretto solo il segno lungo/corto del deal. Tale vincolo è stato rimosso e ora le banche useranno i delta effettivi presenti nei sistemi, anche se una formulazione di delta in termini di sensitivity del I ordine model-independent, sarebbe stata preferibile rispetto alla citazione della formula di Black&Scholes, ovviamente non applicabile per tutti i possibili pay-off.

Riassumendo, il calcolo SA è in ogni caso molto impegnativo, perché richiede alle banche di effettuare processi di calcolo (e mantenere aggiornati dati anagrafici e di rischio) lungo numerosi livelli, che riportiamo in ordine top-down:

  • controparte
  • netting agreement
  • asset class
  • hedging set
  • category
  • deal-underlyng
  • componenti dell’underlying.

Pur apparendo lontana la scadenza del 1 Gennaio 2017, questo nuovo framework obbligherà ad usare strumentazioni ben più raffinate di quanto serve ora per il calcolo degli add-on, vale a dire la banale segmentazione della tabella riportata in Sezione 1. Si possono prevedere pertanto dal 2015 attivazione di progetti ad hoc e gruppi di lavoro.

Appare infine difficile prevedere se il nuovo SA, a parte un uso per obblighi di calcolo di R, entrerà nei monitoraggi gestionali del rischio, per come appare lontano nei suoi step di calcolo dalla variabili driver usate nel trading operativo (MtM, greche, ..)

Tra gli aspetti positivi, va senz’altro citato che il nuovo approccio SA si inquadra in un percorso internazionale dove tra diverse regolamentazioni, o tra diversi regulators, si cerca una definizione comune e uniforme di alcuni principi guida. Per esempio, le asset class del counterparty risk hanno forti punti di simmetria con la normativa EMIR sui trade repository e con la fundamental review del trading book in corso di analisi da parte del comitato di Basilea (paper 265 [6]). Ribadiamo infine che la formulazione del SA, che bene tiene conto dei margini a garanzia e dei diversi accordi di collateral, permette di estendere la determinazione di EAD anche ai derivati quotati, in accordo con i requisiti  di capitale previsti verso le controparti centrali (CCP).

Riferimenti

[1] Basel Committee on Banking Supervision (2014) The standardized approach for measuring counterparty credit risk exposures

[2] Basel Committee on Banking Supervision (2013)  The non-internal model method for capitalising counterparty credit risk exposures

[3] BNP Paribas (2014) BNP answer to BCBS254

[4] Basel Committee on Banking Supervision (2005) An Explanatory Note on the Basel II IRB Risk Weight Functions

[5] M.Pykthin (2009) “Modeling credit exposure for collateralized counterparties”, The Journal of Credit Risk.

[6] Basel Committee on Banking Supervision (2013) Fundamental review of the trading book: A revised market risk framework

[7] M. Bonollo, D. Marazzina (2014) Prudential Valuation dei derivati (AVA)FinRiskAlert.it

[8] M. Bonollo, D. Marazzina (2014), AVA: Quali novità per la Prudential ValuationFinRiskAlert.it

 

Solvency II: il primo set di Implementing Technical Standard sui processi di approvazione
di Mirko Maestrucci

Mag 19 2014
Solvency II: il primo set di Implementing Technical Standard sui processi di approvazione   <small><small><I> di Mirko Maestrucci </I></small></small>

EIOPA ha emanato il 1 aprile, in pubblica consultazione, una prima serie di ITS (Implementing Technical Standard) per definire le procedure di approvazione del Matching Adjustment, degli Ancillary Own Funds, degli Undertaking Specific Parameters, dei Modelli Interni e dei Special Purpose Vehicles, oltre al processo per le decisioni congiunte dei collegi delle autorità di vigilanza costituiti per valutare i modelli interni dei gruppi transnazionali. Gli ITS contribuiscono alla preparazione delle compagnie di assicurazione e delle autorità di vigilanza al processo di approvazione che partirà dal 1 aprile 2015. EIOPA proporrà gli ITS alla Commissione Europea entro il 31 ottobre 2015 per l’approvazione finale.

Gli ITS sono strumenti regolamentari redatti da EIOPA secondo i poteri conferiti dalle norme istitutive,  sono redatti sulla base di un a precisa delega della Commissione nell’ambito di un atto legislativo rilevante (per esempio la Direttiva Omnibus II che modifica l’esistente Direttiva Solvency II). Questo tipo di delega include quasi sempre una deadline entro la quale trasmettere gli Standard Tecnici.

Gli Standard Tecnici non contengono decisioni strategiche o scelte politiche e il loro ambito è limitato alla specifica delega, il loro obiettivo principale è quello di definire i moduli, gli schemi e le procedure per specifiche aree regolamentate. EIOPA, come per tutti i suoi atti regolamentari, conduce una pubblica consultazione e effettua un’analisi costi/benefici (Impact Assessment) consultando anche l’importante Stakeholder Group.

La bozza finale degli standard tecnici di implementazione deve essere approvata dalla Commissione, che informa il Parlamento Europeo e il Consiglio. La Commissione ha il potere di emendare o respingere la proposta per gli ITS entro tre mesi. EIOPA può sottoporre una nuova bozza entro sei settimane dalle osservazioni della Commissione. Una volta che gli standard tecnici sono approvati dalla Commissione, vengono tradotti e pubblicati, divenendo misure implementative con forza di legge.

Il gruppo di ITS presentati in pubblica consultazione nell’aprile 2014 riguardano prevalentemente i processi di approvazione che descrivono i requisiti necessari per ottenere l’autorizzazione all’utilizzo di particolari elementi del sistema prudenziale. Inoltre, vengono declinati i requisiti necessari affinché le autorità di vigilanza siano in grado di dare un approvazione con una validità legale certa. I processi di approvazione ambiscono ad assicurare, attraverso un’analisi preliminare del supervisore, la qualità e l’ammissibilità di certi importanti e complessi parametri “non-standard”. Il processo di approvazione è generalmente suddivisibile in tre step principali:

File articolo Maestrucci

 

 

Quali sono gli standard in pubblica consultazione?

  1. ITS sul processo di approvazione per l’utilizzo del Matching Adjustment (MA);
  2. ITS sul processo di approvazione dei modelli interni, sulle modifiche rilevanti al modello e sui cambiamenti alla policy che ne regola le modifiche;
  3. ITS sul processo decisionale congiunto per i modelli interni dei gruppi assicurativi;
  4. ITS per il processo di approvazione dei parametri “undertaking-specific” (USP);
  5. ITS per il processo di approvazione degli ancillary own funds
  6. ITS riguardanti gli Special Purpose Vehicles (SPVs)

 

Il Matching Adjustment

Al fine di mitigare la volatilità di breve periodo del Bilancio Solvency II, in considerazione della natura di lungo periodo dei tipici impegni degli assicuratori, il matching adjustment vuole attenuare l’impatto della variazione degli spread degli attivi sull’ammontare complessivo dei fondi propri. Il MA si applicherà ad alcuni portafogli che sono gestiti in maniera separata, i cash-flow dovranno essere coperti da attivi con flussi aventi caratteristiche simili in termini di duration, scadenza e ammontare. Quindi, nel caso in cui i flussi attivi e passivi abbiano caratteristiche simili fino a scadenza, ovvero vi sia un cash-flow matching, il MA potrà essere utilizzato per modificare la curva indicata per il calcolo best estimate delle riserve tecniche.

Gli Standard stabiliscono il processo da seguire per l’approvazione del MA, focalizzandosi su come la compagnia possa dimostrare il rispetto dei criteri sul cash-flow matching di attivi e passivi. In linea con la Direttiva si stabiliscono norme per assicurare che:

–          i flussi attivi e passivi siano allineati e che gli attivi possano essere sostituiti solo al fine di mantenere l’allineamento in casi come il downgrade o il default di un titolo obbligazionario;

–          la compagnia può mantenere questi attivi fino a scadenza;

–          vi sia un’adeguata trasparenza attraverso una disclosure pubblica dell’impatto del MA sulla posizione finanziaria.

 

Il processo di approvazione dei modelli interni e il processo di variazione della politica del modello interno delle modifiche rilevanti

Il modello interno è uno strumento di risk management che consente alla compagnia di analizzare il profilo di rischio complessivo, quantificando i rischi e determinando il capitale necessario per affrontarli. È responsabilità della compagnia mantenere aggiornato il modello e le metodologia in maniera accurata. L’autorità di vigilanza deve approvare i cambiamenti rilevanti del modello e accertarsi che il modello risponda ancora, dopo le modifiche, ai requisiti definiti per l’approvazione del suo utilizzo. La Direttiva richiede che la politica per le modifiche del modello interno sia già inclusa nell’iniziale processo di approvazione e quindi anche i cambiamenti a tale politica debbano essere sottoposti all’approvazione dell’autorità.

 

Il processo decisionale congiunto per i modelli interni di gruppo

Il modello interno di gruppo è utilizzato per calcolare l’SCR consolidato di gruppo e almeno un SCR di una singola controllata. Gli standard specificano gli elementi minimi, che le autorità di controllo coinvolte, devono considerare nel predisporre il processo per una decisione congiunta. Questi ITS intendono contribuire a migliorare la convergenza della vigilanza dell’Unione Europea, garantendo l’efficacia del processo utilizzato per raggiungere la decisione congiunta tra le varie autorità coinvolte. Obiettivo dichiarato è facilitare la decisione entro i sei mesi stabiliti dalla Direttiva permettendo una razionale allocazione delle risorse.

 

Il processo di approvazione dei parametri undertaking specific

L’approccio USP per il calcolo del capitale regolamentare Solvency II è basato su formule i cui parametri possono essere modificati per meglio riflettere il profilo di rischio della compagnia.

Gli ITS descrivono:

–          il processo nel quale la compagnia deve dimostrare che soddisfa i requisiti relativamente alla qualità dei dati e al profilo di rischio. Questo comprende le argomentazioni per giustificare la scelta dei parametri, dei segmenti e dei metodi prescelti per il calcolo, come le risultanze della valutazione della completezza, accuratezza e appropriatezza dei dati;

–          il processo di ritorno all’utilizzo dei parametri della standard formula, che devono essere approvati e debitamente giustificati dall’autorità di vigilanza;

–          il processo con il quale l’autorità di vigilanza richiede alla compagnia l’utilizzo degli USP.

 

Il processo di approvazione degli ancillary own funds

I fondi propri accessori sono elementi di capitale, distinti dai fondi propri di base, che possono essere richiamati per assorbire delle perdite. A esempio: capitale sottoscritto, ma non versato; lettere di credito e garanzia; altre impegni legalmente vincolanti ricevuti da un assicuratore o riassicuratore.

L’ammissibilità dei fondi accessori è sottoposta a preventiva approvazione da parte dell’autorità di vigilanza. I fondi accessori possono coprire parte dell’SCR, ma non l’MCR. Quando un fondo proprio accessorio viene richiamato o pagato, viene considerato come un elemento attivo e cessa di far parte dei pondi propri accessori.

 

Gli standard sugli Special Purpose Vehicle (SPVs)

Gli SPV sono entità legali indipendenti che vengono istituiti da uno o più sponsor. In ambito assicurativo l’SPV assumerà rischi dall’assicuratore o riassicuratore. La creazione di un’entità separata legalmente deve creare una terza parte indipendente alla quale possono essere trasferiti rischi assicurativi e attività. Dopo la creazione e il trasferimento di attività, portafoglio o rischi assicurativi, lo sponsor non avrà il controllo sul SPV e l’SPV non vanterà diritti verso lo sponsor. L’SPV deve favorire l’effettivo trasferimento del rischio.

Gli ITS si focalizzano su:

–          misure per assicurare l’effettivo trasferimento del rischio e la protezione dell’assicurato attraverso un processo di analisi della struttura e del trasferimento stesso;

–          il processo di cooperazione e scambio di informazioni tra le autorità di vigilanza e il disegno di moduli e formati per la contabilità e le informazioni statistiche e di vigilanza a carico degli SPV.

Pillole dal Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia
di Emilio Barucci

Mag 19 2014
Pillole dal Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia  <small><small><I>  di Emilio Barucci  </I></small></small>

La Banca d’Italia pubblica con cadenza semestrale un Rapporto sulla stabilità finanziaria. Oltre ad informazioni note ai più e diffuse dalla stampa specializzata ci sono alcune informazioni che meritano di essere segnalate. Senza alcuna pretesa di organicità, riportiamo quelle che abbiamo annotato:

  1. L’Italia detiene in larga parte il proprio debito pubblico. Soltanto il 36.7% del debito pubblico è detenuto da non residenti; tra i paesi più rilevanti dell’area euro ha la quota più bassa: Germania, 61%; Francia, 64%; Spagna, 40%; Grecia, 86%.
  2. I flussi di capitali esteri in Italia sono stati positivi per i titoli pubblici (a partire da metà 2012) e per le azioni e le obbligazioni private (a partire dall’autunno del 2013), rispettivamente -80 miliardi e +40 miliardi il dato cumulato a marzo 2014 rispetto a giugno 2011; tra fasi alterne,  la raccolta delle banche italiane delle banche dall’estero è stata negativa: -170 miliardi il dato cumulato a marzo 2014 rispetto a giugno 2011.
  3. La correlazione tra i tassi di interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi (decennali) ha conosciuto tre diversi periodi negli ultimi anni: forte correlazione positiva (prossima a 1) dall’avvio dell’UEM alla crisi Lehman; forte diminuzione della correlazione fino a divenire anche significativamente negativa nel periodo che va dal settembre 2008 all’estate 2012; correlazione positiva, anche se su valori inferiori rispetto al primo periodo, dopo l’annuncio del programma OMT nell’estate 2012.
  4. L’esposizione delle banche italiane nei confronti dei paesi emergenti, che potrebbero rappresentare una fonte di rischio, è molto limitata rispetto a quella delle banche tedesche, francesi e spagnole. L’esposizione è inoltre perlopiù concentrata verso i paesi dell’Europa centrale ed orientale ed è minima nei confronti dei paesi emergenti più colpiti dalle recenti tensioni.
  5. In un periodo di stretta del credito, il mercato obbligazionario ha rappresentato un canale alternativo a quello del credito bancario soltanto per le imprese di grande dimensioni: nel periodo 2002-2007 le emissioni in media sono state di 23 miliardi per anno, nel periodo 2009-2013 sono state in media pari a 32 miliardi; per le aziende di medie dimensioni invece le emissioni obbligazionarie sono diminuite (da 550 milioni a 320 milioni, in media per anno).
  6. Più che di alternativa si deve parlare in realtà di sostituzione: su un campione di 260 gruppi industriali, tra il 2009 e il 2013, quelli che hanno fatto ricorso al mercato obbligazionario hanno ridotto l’indebitamento con le banche di circa il 42%: i collocamenti di titoli, al netto di rimborsi, sono stati di circa 68 miliardi mentre i prestiti bancari si sono ridotti di 33 miliardi.
  7. Le condizioni di tasso di interesse sulle nuove erogazioni mutui alle famiglie da parte delle banche italiane sono state inferiori a quelle dell’area euro fino all’ottobre 2011; le condizioni di tasso di interesse sulle nuove erogazioni prestiti alle imprese da parte delle banche italiane sono state inferiori a quelle dell’area euro fino al giugno 2011. Fino a metà 2011 il rischio di credito in Italia percepito dagli intermediari era minore di quello degli altri paesi dell’area euro.
  8. Da luglio 2013 a marzo 2014 le vendite nette di titoli di Stato da parte delle banche italiane sono state pari a 22 miliardi. A fine marzo i titoli pubblici nei portafogli delle banche italiane ammontavano a 382 miliardi (10% del totale attivo).
  9. La raccolta bancaria sta subendo una trasformazione significativa. Si osserva: una riduzione delle passività nei confronti dell’Eurosistema, una raccolta obbligazionaria al dettaglio negativa, una raccolta obbligazionaria all’ingrosso che è tornata positiva nell’ultimo trimestre del 2013, i depositi da residenti continuano a crescere mentre quelli da non residenti continuano a diminuire.
  10. La raccolta al dettaglio delle banche è negativa a partire da metà del 2013 mentre i prestiti sono in calo oramai dall’inizio del 2012. Questo fa sì che il funding gap sia tornato sui livelli del 2005.
  11. Le quindici banche italiane oggetto del comprehensive assessment presentano  un CET1 ratio medio superiore rispetto ai valori europei: 9.9% contro il 9%. Sul fronte del leverage ratio, le banche italiane dimensione significativa presentano un rapporto del 4% contro un 3% delle banche europee di maggiore dimensione. Le banche italiane di dimensione significativa si confermano dunque solide da un punto di vista patrimoniale e con un minore livello di leverage rispetto a quelle europee.
  12. In termini di leverage le banche esposte più della media sono nell’ordine quelle tedesche, francesi, danesi e olandesi. Il grado di leverage è in diminuzione per due canali distinti: rafforzamento patrimoniale, diminuzione di titoli e derivati del settore privato.

La Banca d’Italia ripubblica la circolare 299/1999 “Istruzioni di vigilanza per le banche”

Mag 18 2014

In data 15 maggio 2014 la Banca d’Italia ha ripubblicato la circolare 229/1999 “Istruzioni di vigilanza per le banche”, contenente in origine, tra le altre, disposizioni in materia di autorizzazione all’attività bancaria, assetti proprietari, requisiti degli esponenti aziendali, struttura territoriale. La pubblicazione ha scopo esclusivamente informativo per evidenziare gli emendamenti apportati alle disposizioni contenute in questa circolare negli anni. Questa pubblicazione è particolarmente utile per gli operatori, anche perché a seguito dell’emanazione della nuova circolare 285/2013, entrata in vigore all’inizio di quest’anno, è stata modificata in maniera ampia e incisiva tutta la materia della vigilanza prudenziale. Per approfondimenti vedi l’articolo “Le nuove fonti della vigilanza prudenziale” di Concetta Brescia Morra e Giulia Mele