Un bilancio del Quantitative Easing della Fed
di Stefano Corsaro

Giu 03 2014
Un bilancio del Quantitative Easing della Fed  <small><small><I> di Stefano Corsaro </I></small></small>

Nell’imminenza delle decisioni della BCE in merito all’ipotesi di una nuova stagione di misure non convenzionali di politica monetaria (delle mosse sinora attuate abbiamo già parlato, si veda Barucci, Corsaro, Milani, 2014), proviamo a fare il punto sugli effetti del Quantitative Easing della Fed. Gli esiti sui mercati monetari sono stati sicuramente significativi, al contempo anche quelli sull’economia reale appaiono di rilevante entità, sebbene non ci sia unità di vedute al riguardo.

1. IL QUANTITATIVE EASING DELLA FED

A seguito della crisi economico-finanziaria del 2007, la Federal Reserve ha da subito messo in atto le classiche misure monetarie espansive, abbassando i tassi di interesse di riferimento del mercato monetario, che sono passati da 5,25% a zero. Questa mossa non sembrò essere sufficiente a tranquillizzare i mercati e a rilanciare l’economia. Per questo motivo, a partire dalla fine del 2008, la Fed ha promosso misure non convenzionali, che si sono concretizzate nell’acquisto titoli sui mercati secondari (Quantitative Easing – QE, anche detto Large Scale Asset Purchase – LSAP) (Fed, 2013; Fed, 2014a). La banca centrale statunitense ha deciso di acquistare titoli garantiti da ipoteche (Mortgage-backed securities, MBS) e titoli pubblici (Treasuries).

Il programma si è articolato in almeno quattro fasi distinte:

  • Il QE1 è partito nel 2008 con l’acquisto di 100 miliardi di dollari di debito di imprese private con supporto governativo (quali Fannie Mae e Freddie Mac) e 500 miliardi di MBS; pochi mesi dopo, il programma è stato ampliato quantitativamente e qualitativamente, con l’acquisto di 300 miliardi di Treasuries a lungo termine. Il QE1 ha avuto termine all’inizio del 2010;
  • Gli acquisti di titoli sono ripartiti nel novembre del 2010 (QE 2). Nel 2011, con l’operazione Twist, la banca centrale statunitense ha modificato la composizione del suo portafoglio, vendendo titoli a breve e acquistando titoli a lungo termine; l’obiettivo era quello di diminuire i tassi di interesse a lungo termine rispetto a quelli a breve.
  • Nel settembre 2012 è stata approvata la terza ondata di acquisti (QE 3): a differenza di QE 1 e QE 2, la Fed non ha stabilito l’ammontare di titoli da comprare, ma il ritmo degli acquisti, pari a 40 miliardi di MBS al mese.
  • Dopo pochi mesi la Fed ha deciso anche di acquistare Treasuries a lungo termine pari a 45 miliardi al mese senza sterilizzazione (QE 4).

Alla fine dello scorso anno, in seguito al miglioramento dei principali indicatori economici, è iniziato il processo di diminuzione degli acquisti dei titoli (tapering): ad oggi essi ammontano a 45 miliardi mensili (Fawley e Neely, 2013; Fed, 2014b).

2. IL QE E IL MERCATO MONETARIO

Negli anni antecedenti la crisi, la Federal Reserve deteneva attività tra 700 e 800 miliardi di dollari, per la quasi totalità titoli di stato a breve e a lungo termine. Le politiche monetarie messe in atto negli ultimi anni hanno dilatato significativamente il suo portafoglio, che attualmente è valutabile in oltre 4.300 miliardi di dollari. I Treasuries a breve termine sono quasi del tutto scomparsi, mentre quelli a lungo termine sono aumentati in misura significativa. Nel bilancio della Fed trovano posto anche 1500 miliardi di MBS (Fawley e Neely, 2013; Fed, 2014c).

Gli acquisti hanno avuto come obiettivo principale quello di aumentare i prezzi dei titoli e di diminuirne i rendimenti. Oltre che indurre gli operatori a modificare i propri portafogli, le mosse della Fed hanno fornito liquidità e migliorato il funzionamento dei mercati. Questi obiettivi sembrano aver avuto un ruolo importante soprattutto nella prima fase di QE. L’effetto è stato significativo in particolar modo per i Treasuries a lungo termine (Fed, 2013, Gagnon et al., 2011).

A differenza delle successive espansioni monetarie, il QE 1 è stata una mossa inaspettata da parte dei mercati. Il suo effetto è stato significativo, all’atto dell’annuncio nel novembre 2008 si è registrata una diminuzione dei tassi di interesse compresa tra i 2 punti base per i Treasuries a 2 anni e gli oltre 40 punti base per le MBS e le obbligazioni delle imprese private con supporto governativo. La diminuzione dei rendimenti dei Treasuries decennali che ha fatto seguito alle dichiarazioni del comitato della Fed del marzo 2009 è stata pari a 47 punti base, un dato che rappresenta il calo più significativo dal 1987 ad oggi. La variazione dei tassi associata alle otto dichiarazioni effettuate dalla Fed tra il novembre 2008 e il novembre 2009 è assai significativa: i rendimenti dei Treasuries a 2 e 10 anni, delle obbligazioni delle imprese a 10 anni e delle MBS sono diminuiti rispettivamente di 34, 91, 156 e 113 punti base. Il QE 1 ha agito soprattutto sul term premium e quindi sui rendimenti a lungo termine (Gagnon et al., 2011; Rogers et al., 2014 ).

Il QE 2 non ha beneficiato dell’effetto sorpresa del QE 1. Al momento del suo annuncio gli analisti avevano già presente la possibilità che la banca centrale mettesse in campo un nuovo round di acquisto di obbligazioni. Non a caso tra l’agosto e l’ottobre 2010 il rendimento dei titoli pubblici decennali era calato di 25 punti base, giungendo al 2,41%, il valore minimo dal gennaio 2009. Al momento dell’annuncio del QE 2 (novembre 2010), i rendimenti erano risaliti ai livelli di agosto e nei due mesi successivi sono aumentati di 63 punti base. Anche il QE 3 era in qualche modo già stato scontato dagli operatori: nella settimana successiva al suo annuncio, i rendimenti sui titoli pubblici a 10 anni hanno conosciuto un aumento di tredici punti base (Fawley e Neely, 2013: US Treasury, 2014).

I risultati positivi del QE sui mercati monetari e finanziari sono largamente riconosciuti: due mesi dopo ogni nuovo round di acquisti, i tassi di interesse a lungo termine sono calati dello 0,15%; nello stesso arco temporale, le azioni si sono apprezzate in misura significativa. In contrasto con i risultati esposti in precedenza, gli acquisti di QE 2 e QE 3 sembrano aver avuto più efficacia di quelli compiuti nel QE 1 (Meinusch e Tillmann, 2014).

Effetti positivi sono stati riscontrati anche per i MBS. La quota di MBS detenuta dalla Fed rispetto al totale del mercato è cresciuta in misura significativa tra il 2000 e il 2013: a giugno dello scorso anno la quota era pari al 24%. Alcune analisi stimano che tale quota abbia portato ad una diminuzione dei rendimenti delle MBS dell’ordine di 55 punti base. Gli acquisti per 10 miliardi a settimana compiuti dalla Fed sino a pochi mesi avrebbero contribuito a far calare il loro rendimento di 0,5 punti base sempre a settimana. (Hancock e Passmore, 2014).

Attorno al reale effetto delle operazioni di QE non vi è comunque una valutazione unanime.  Da più parti si osserva che se il QE avesse davvero contribuito alla riduzione dei rendimenti sui titoli, il differenziale di rendimento tra i titoli dei paesi che non hanno messo in cantiere operazioni di QE e gli Stati Uniti dovrebbe essere aumentato. Paragonando i rendimenti di USA, Germania, Regno Unito e Francia si nota come lo spread sia effettivamente cresciuto nei giorni di intensa applicazione del QE (tra novembre 2008 e gennaio 2009) ma l’effetto sia stato poi rapidamente assorbito: dal picco di gennaio 2009, nel corso dell’anno lo spread è tornato ai livelli precedenti il QE1 (Thornton, 2014).

3. GLI EFFETTI DEL QE SULL’ECONOMIA REALE

Le azioni della Federal Reserve hanno avuto significative conseguenze sull’andamento dell’economia reale: a un anno dall’implementazione di ciascuna fase di acquisto titoli, la produzione industriale è aumentata dell’1%. Il programma QE 2 ha avuto l’effetto più significativo. L’occupazione ha reagito in misura meno significativa: la crescita è stata infatti pari allo 0,4%. Le politiche della Fed sembrano aver avuto successo nell’evitare che gli Stati Uniti scivolassero in una situazione simile alla Grande Depressione. Alcune analisi stimano che senza le operazioni di QE avremmo avuto una spirale deflattiva tra l’ultimo trimestre del 2008 e il primo del 2009, con un picco pari a -1% nel secondo trimestre dell’anno. Nel 2009 la perdita cumulata di PIL sarebbe arrivata a 10 punti percentuali e la disoccupazione sarebbe cresciuta dello 0,75%, raggiungendo il 10,6%. Nello scenario più negativo, il crollo del PIL avrebbe potuto raggiungere il 20% e l’inflazione sarebbe potuta rimanere in territorio negativo per un periodo di tempo più esteso (Baumeister e Benati, 2013).

In letteratura ci sono però anche valutazioni di segno opposto secondo cui gli acquisti di titoli pubblici avrebbero aumentato il PIL in maniera irrisoria, l’inflazione sarebbe cresciuta dello 0,2%, per tornare ai livelli precedenti dopo due anni e mezzo, la disoccupazione sarebbe diminuita dello 0,04% e i salari sarebbero aumentati dello 0,3%. Nel lungo periodo gli effetti sarebbero praticamente nulli (Song, 2014).

Le operazioni di QE hanno avuto un effetto anche sul fronte della distribuzione della ricchezza. Gli acquisti di titoli hanno fatto crescere i prezzi dei titoli finanziari che sono tornati sui livelli pre-crisi. Questo ha favorito i possessori di attività finanziarie. Coerentemente, tra il 2007 e il 2010 (dunque, tenendo in considerazione il solo QE 1), la percentuale di ricchezza detenuta dal decile superiore della popolazione è cresciuta dall’81,3% all’85,6%. Nello stesso periodo, il 40% più ricco della popolazione ha aumentato il proprio rapporto spese sostenute/reddito, mentre il secondo 40% l’ha diminuito (Watkins, 2014).

4. QUALI PROSPETTIVE PER IL TAPERING?

Il ritorno a politiche monetarie convenzionali sarà necessariamente accompagnato da un ridimensionamento del bilancio della Fed. Seguendo la strategia delineata dall’ex presidente Bernanke nel giugno 2013, gli MBS non sarebbero venduti (almeno momentaneamente): i titoli detenuti dal System Open Market Account (SOMA) andrebbero a maturazione entro il 2020 e i ricavi della Fed nel periodo tra 2009 e 2025 sarebbero pari 910 miliardi di dollari. Se gli MBS venissero venduti contestualmente agli altri titoli, la completa maturazione dei titoli avverrebbe nel 2019 e i ricavi diminuirebbero di oltre 65 miliardi. Tali dati si basano su ipotesi che non hanno trovato conferma ad oggi; ciononostante, essi ci forniscono un’idea del lasso di tempo necessario prima che il bilancio della Fed torni a livelli pre-crisi e ci mostra i ricavi che la stessa potrebbe ottenere dall’operazione (Carpenter et al., 2013).

La crescita del portafoglio della Fed potrebbe creare dei rischi associati a cambiamenti futuri dei tassi di interesse. Il pericolo che l’aumento dei tassi porti il valore del portafoglio dei Treasuries al di sotto del valore nominale è però inferiore al 5%. Allo stesso modo, la probabilità che i tassi di interesse a breve salgano tanto da rendere negativi i ricavi netti nel periodo 2016-2018 è solo dello 0,1% (Christensen et al., 2014).

 

BIBLIOGRAFIA

  • Christensen, Jens H.E., Jose A. Lopez, Glenn D. Rudebusch. Stress testing the Fed. Federal Reserve Bank of San Francisco. Economic letter n.08. 2014.

 

Gli investimenti finanziari delle famiglie italiane tra scarsa diversificazione e bassa cultura finanziaria
di Nadia Linciano, Paola Soccorso

Giu 03 2014
Gli investimenti finanziari delle famiglie italiane tra scarsa diversificazione e bassa cultura finanziaria  <small><small><I> di Nadia Linciano, Paola Soccorso </I></small></small>

Le scelte di investimento delle famiglie italiane sono state segnate dall’avvicendarsi delle crisi (subprime prima e del debito sovrano poi), come testimonia il confronto tra l’evidenza raccolta a fine 2013 e i dati relativi alla partecipazione al mercato finanziario e all’allocazione di portafoglio a fine 2007.

In particolare, nel 2013, la partecipazione dei risparmiatori ai mercati finanziari, espressa dalla percentuale di famiglie che investono in strumenti rischiosi (azioni, obbligazioni, risparmio gestito e polizze vita) si attestava al 26,3%, valore significativamente inferiore a quello del 2007, quando sfiorava il 38% (Fig. 1). È importante segnalare, tuttavia, che il dato a fine 2013 mostra un incremento di circa un punto percentuale rispetto all’anno precedente, riflettendo i segnali di ripresa sperimentati dal mercato azionario soprattutto nella seconda metà dell’anno.

In linea con il calo della partecipazione ai mercati finanziari, rispetto al periodo precedente alla crisi è diminuita anche la quota di ricchezza investita in azioni. Negli ultimi anni, infatti, la congiuntura negativa ha rafforzato la bassa propensione degli italiani all’investimento azionario, segnando una retrocessione rispetto alla parziale inversione di tendenza dovuta anche alla riduzione dei rendimenti dei titoli pubblici conseguente all’ingresso nell’Area euro.

Nel complesso, gli investitori italiani continuano a detenere portafogli poco diversificati, a prevalente componente obbligazionaria. Fanno eccezione i soggetti che si avvalgono del servizio di consulenza, che tuttavia, continuano a essere una componente minoritaria. In questo contesto, gioca a sfavore anche il basso livello di cultura finanziaria, che sembra positivamente correlato con la propensione degli individui a decidere in autonomia.

La Relazione annuale della Consob per l’anno 2013 fornisce evidenze in merito alle scelte di portafoglio delle famiglie italiane e conferma il quadro appena delineato.

 

* * *

L’investimento da parte dei risparmiatori italiani in titoli di Stato domestici continua a registrare il maggior tasso di partecipazione (poco più del 12%), pur risultando a fine 2013 in calo di quasi un punto percentuale rispetto all’anno precedente, quando si era riportato sui livelli del 2007. Sono sostanzialmente stabili, invece, i tassi di partecipazione relativi alle famiglie che detengono, rispettivamente, obbligazioni bancarie (9,5% a fine 2013) e fondi comuni o Sicav (6%). È interessante osservare che il dato sulle obbligazioni bancarie è rimasto stabile anche durante la crisi, a differenza dei prodotti del risparmio gestito per i quali la partecipazione si è dimezzata. Lo stesso dicasi per la percentuale di investitori in azioni quotate italiane, che sebbene in aumento rispetto al 2012 (dal 2,9% al 3,5%) è in netto calo rispetto al 6,5% nel 2007 (Fig. 1).

Fig. 1 Partecipazione ai mercati finanziari per tipologia di prodotto(percentuale di famiglie che detiene il prodotto o strumento finanziario indicato)
 Immagine 2
Fonte: elaborazioni su dati GfK Eurisko – Multifinanziaria Retail Market (dati di sondaggio su un campione di circa 2.500 famiglie italiane).

 

L’evidenza sulla composizione del portafoglio delle famiglie è in linea con quella relativa alla partecipazione ai mercati finanziari (Fig. 2). La quota delle attività finanziarie investite in titoli di Stato si è contratta, infatti, di circa 4 punti percentuali (dal 17,1% nel dicembre 2012 al 13,7% nel dicembre 2013); nello stesso periodo l’investimento in prodotti del risparmio gestito ha mostrato un lieve aumento portandosi all’11% (+0,4 punti percentuali), mentre quello in obbligazioni (italiane ed estere) si è contratto dal 15,4 al 13,8%. Anche il dato relativo alle azioni ha subito una flessione, passando dal 5,3 al 4,2% delle attività finanziarie in portafoglio. Il possesso di depositi bancari e risparmio postale, infine, rimane stabile attorno al 47% e nettamente superiore al dato relativo al 2007, quando si attestava al 38% circa.

 

Fig. 2 Allocazione della ricchezza per tipologia di prodotto
 Immagine 5
Fonte: stime su dati GfK Eurisko – Multifinanziaria Retail Market. La voce depositi e risparmio postale include i depositi in c/c bancari e postali, i libretti di risparmio bancari e postali, i depositi in valute diverse dall’euro, i pronti contro termine, i certificati di deposito. La voce risparmio gestito include fondi comuni e Sicav italiani ed esteri, programmi di accumulo (Pac), gestioni patrimoniali mobiliari (Gpm) e in fondi (Gpf), programmi misti polizze-fondi, servizi di gestione della liquidità. La voce polizze include le polizze del ramo III e V, i prodotti a capitalizzazione, le polizze multiramo, i piani pensionistici integrativi. La ricchezza finanziaria non include il circolante.

 

La diversificazione del portafoglio continua a risultare maggiore per le famiglie che ricorrono al servizio di consulenza, in particolare alla cosiddetta consulenza MiFID (definibile come il servizio nell’ambito del quale le famiglie vengono contattate dal proprio consulente di fiducia per gli investimenti e ricevono proposte personalizzate e riferite a uno specifico strumento finanziario; Fig. 3). Il portafoglio di coloro che si rivolgono a un consulente include almeno un prodotto finanziario rischioso in circa il 75% dei casi (rispetto a circa il 7% rilevato per famiglie che decidono in autonomia).

Rimane esigua, tuttavia, la quota di famiglie che ricorrono al servizio di consulenza (8% a fine 2013 a fronte del 10% nel 2007); altrettanto contenuto è il dato relativo agli investitori che dichiarano di ricevere forme di consulenza “generica”, ossia non riferita a uno specifico strumento finanziario. Al contempo risulta elevata, e in crescita rispetto al 2007, la percentuale di famiglie che dichiarano di effettuare le proprie scelte d’investimento senza alcun supporto (38% a fine 2013).

 

Fig. 3 Partecipazione al mercato finanziario e diffusione del servizio di consulenza
 Immagine 8
Fonte: elaborazioni su dati GfK Eurisko – Multifinanziaria Retail Market. Il gruppo ‘consulenza passiva’ include le famiglie che dichiarano di avere un consulente di fiducia per gli investimenti del quale, tuttavia, non sono state contattate negli ultimi 12 mesi. Il gruppo ‘consulenza generica’ include le famiglie che hanno un consulente di fiducia, dal quale vengono contattate senza ricevere proposte di investimento relative a specifici strumenti finanziari. Il gruppo ‘servizio di consulenza MiFID’ include le famiglie che vengono contattate dal proprio consulente di fiducia per gli investimenti e ricevono proposte di investimento personalizzate e riferite a uno specifico strumento finanziario.

 

La propensione a investire con il supporto di un intermediario è correlata positivamente con il livello di istruzione, sebbene la quota di investitori con diploma di laurea che hanno scelto di non avvalersi della consulenza sia aumentata, rispetto al 2007, portandosi su valori comparabili a quelli registrati per altre categorie di investitori (Fig. 4). Quasi la metà delle famiglie che ricevono consulenza MiFID, inoltre, non sa distinguere le modalità con le quali fruisce del servizio.

 

Fig. 4 Servizio di consulenza per livello di istruzione e per modalità di ricezione del servizio
 Immagine 11
Fonte: elaborazioni su dati GfK Eurisko – Multifinanziaria Retail Market. Il gruppo ‘consulenza passiva’ include le famiglie che dichiarano di avere un consulente di fiducia per gli investimenti del quale, tuttavia, non sono state contattate negli ultimi 12 mesi. Il gruppo ‘consulenza generica’ include le famiglie che hanno un consulente di fiducia, dal quale vengono contattate senza ricevere proposte di investimento relative a specifici strumenti finanziari. Il gruppo ‘servizio di consulenza Mifid’ include le famiglie che vengono contattate dal proprio consulente di fiducia per gli investimenti e ricevono proposte di investimento personalizzate e riferite a uno specifico strumento finanziario. Per prodotti o strumenti finanziari rischiosi si intendono azioni, obbligazioni, risparmio gestito e polizze vita.

 

L’evidenza sulla domanda di consulenza riflette in parte il basso livello di educazione finanziaria che caratterizza l’investitore italiano medio, il quale ignora anche le nozioni basilari relative alla relazione rischio-rendimento e alla diversificazione del portafoglio. È quanto emerge da un’indagine, commissionata da Consob nel 2013, relativa a: livello di conoscenze in ambito finanziario, atteggiamenti comportamentali più diffusi nella fase di scelta di investimento, situazione finanziaria in termini di stabilità e prospettive del reddito, indebitamento e adesione a forme di previdenza complementare.

Il campione include 1.020 intervistati, di 787 uomini e 233 donne, residenti per quasi il 49% al nord, per il 21% circa al centro e per il restante 30% al sud e nelle isole; poco più di un  terzo ha un livello di istruzione corrispondente alla licenza media inferiore, metà ha proseguito gli studi, ma senza conseguire la laurea, il 16% circa si è laureato (e in alcuni casi ha conseguito titoli post-lauream). Il campione è stato costruito in modo tale da risultare rappresentativo di circa 20,5 milioni di famiglie italiane, per territorio, sesso, età, istruzione, professione e reddito.

Tra le domande tese ad accertare il livello di financial literacy, è stata verificata la conoscenza del concetto di inflazione, del principio di diversificazione del rischio e della relazione tra rischio e rendimento (Tav. 1).

Tav. 1 Livello di financial literacy degli investitori italiani

Quesito

Risultato

Conosce

Non sa – non indica

Concetto di inflazione

68%

32%

Concetto di diversificazione del rischio

53%

47%

Relazione rischio – rendimento

53%

47%

 

Fonte: GfK Eurisco; Riquadro 3 Relazione annuale Consob per il 2013.

 

Il 68% degli intervistati ha dimostrato di conoscere i concetti di potere d’acquisto della moneta e di riduzione nel tempo del valore delle somme detenute; il restante 30% riferisce di non conoscere la risposta o indica opzioni errate. La percentuale di soggetti che rispondono correttamente si riduce in corrispondenza della domanda in merito alla diversificazione del rischio: solo il 53% degli intervistati ha indicato l’alternativa corretta, la quota restante non era in grado di rispondere (22%) ovvero lo ha fatto in modo errato (26%). Percentuali analoghe si rilevano con riferimento alla conoscenza della relazione tra il rischio e il rendimento di un prodotto finanziario.

La distribuzione dei soggetti per livello di conoscenza e genere mostra che la percentuale di uomini che risponde correttamente è mediamente più elevata di dieci punti rispetto alle donne. Il livello di istruzione appare correlato positivamente con la capacità di rispondere correttamente a tutte le domande: in corrispondenza della fascia di istruzione più elevata, la percentuale di soggetti che risponde correttamente alla domanda sulla diversificazione del rischio, in particolare, è di circa 35 punti più alta. Anche la distribuzione per area geografica sembra rilevante: i soggetti residenti nelle regioni meridionali e insulari che rispondono correttamente a ciascuna delle tre domande sono in media il 10% in meno di quelli residenti al centro e al nord Italia.

 

NOTA: Il presente intervento riprende i temi sviluppati nella Relazione annuale 2013 della Consob. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza.

 

BCE e Banca di Inghilterra pubblicano documento congiunto per rilanciare gli ABS

Mag 30 2014

Le banche centrali dell’eurozona e del Regno Unito hanno pubblicato oggi un documento congiunto allo scopo di rilanciare il mercato europeo degli Asset-Backed Securities (ABS). Tra le proposte delle due istituzioni vi sono:
– la creazione di principi di semplicità e trasparenza, grazie ai quali alcune transazioni verrebbero garantite come ‘qualifying securitisations’;
– ulteriori discussioni per armonizzare gli standard a livello di UE;
– la divulgazione da parte delle agenzie di rating di ulteriori informazioni, così da superare i limiti connessi alla norma secondo cui il rating degli ABS non può essere superiore al rating del paese.

Per ulteriori informazioni, leggere qui.

EBA: aperta consultazione per il calcolo dei fondi per le esposizione al rischio

Mag 30 2014

La European Banking Authority (EBA) ha aperto una consultazione sugli standard per il calcolo dei fondi necessari per le esposizioni ai rischi di credito e di mercato. La consultazione si concluderà il 19 agosto 2014.

Gli standard forniranno, tra l’altro: portfolio di riferimento, costruiti sull’esperienza pregressa; definizioni e altre informazioni che le banche dovranno fornire; elementi di riferimento su cui basare il calcolo suddetto.

Comunicato stampa

Pubblicato aggiornamento sull’implementazione dei PFMI

Mag 30 2014

CPSS e IOSCO hanno pubblicato il primo aggiornamento sull’implementazione (livello 1) dei principi per le infrastrutture nei mercati finanziari (Principles for financial market infrastructures, PFMIs). Il livello 1 è costituito dall’autovalutazione delle singole giurisdizioni circa l’applicazione delle nuove norme.
Rispetto al primo report (agosto 2013) sono stati compiuti importanti progressi, che variano a seconda del tipo di infrastrutture considerate.

Entro la fine dell’anno sarà inoltre disponibile un primo report circa il secondo livello di implementazione; la valutazione verrà compiuta direttamente da CPSS e IOSCO.

Comunicato stampa

Iniziata consultazione pubblica nell’ambito dei contributi sulla vigilanza unica

Mag 29 2014

La BCE ha aperto una consultazione pubblica nell’ambito dei contributi da pagare per sostenere la vigilanza unica.
La supervisione costerà mediamente 260 milioni all’anno: le banche saranno tenute a pagare una cifra compresa tra i 2000 e i 15 milioni di euro. Tra i temi della consultazione, il calcolo dell’ammontare per ogni singola banca e i metodi di raccolta.

Conferenza stampa

Documento ufficiale

Q&A

Un confronto sulla rischiosità della clientela delle banche europee
di Carlo Milani

Mag 26 2014
Un confronto sulla rischiosità della clientela delle banche europee   <small><small><I> di Carlo Milani </I></small></small>

Executive summary

L’Autorità Bancaria Europea ha diffuso alcuni parametri che sintetizzano il rischio collegato all’attività bancaria con l’obiettivo di aumentare la trasparenza riguardo allo stato di salute dei diversi mercati bancari europei. Analizzando queste informazioni emerge un‘ampia divaricazione tra paesi periferici e paesi “forti”.

La disclosure dei parametri di rischio

La comparabilità delle statistiche tra diversi paesi europei circa il livello di rischio insito nell’attività bancaria tradizionale di finanziamento risente di innumerevoli problemi. Un primo passo per offrire una definizione più omogenea di come classificare un credito deteriorato è stato compiuto dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che, in vista dell’asset quality review (AQR) e degli stress test, ha elaborato un apposito documento guida (EBA, 2013).

In attesa che la Banca Centrale Europea (BCE) diffonda delle statistiche armonizzate su questo tema, alcune prime indicazioni sullo stato di salute delle diverse industrie bancarie europee è desumibile da un documento recentemente diffuso dall’EBA (2014). Considerando un campione rappresentativo di 55 banche europee, che adottano sia criteri di valutazione del rischio standard sia criteri basati su rating interni, l’EBA è stata in grado di calcolare, a livello di singolo paese e differenziando tra clientela corporate e retail, il tasso medio di default e il tasso di perdita.

Il tasso di default è definito come il rapporto tra il flusso annuo di sofferenze, al lordo degli accantonamenti, e l’ammontare totale di impieghi in bonis ad inizio anno.

Nel grafico 1A è riportato il suo andamento per la clientela corporate in Italia e in due gruppi di paesi: i cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e i paesi core (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda). Dal grafico si rileva come l’Italia abbia mostrato un andamento decisamente crescente negli ultimi anni, passando da un tasso medio di default del 2% del 2010 a quello del 5,5% circa del primo semestre 2013. Ancor più marcata è stata la dinamica nei PIGS, il cui tasso di default medio sulle imprese è raddoppiato, passando dal 5% del 2009 al 10% del 2013. Sostanzialmente stabile è invece il quadro osservato nei paesi core, il cui tasso di default si è attestato intorno all’1,5% per tutto il periodo.

Grafico 1. Tasso di default

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Note: PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna; paesi core: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda.
Per PIGS e paesi core il valore medio è ponderato in base al totale attivo del relativo paese. Dato parzialmente stimato per la Grecia a dicembre 2011 e giugno 2012.
Fonte: elaborazioni dell’autore su dati EBA (2014) e BCE.

Passando ad esaminare la clientela retail, per l’Italia si osserva un andamento inizialmente decrescente fino al 2010-11, seguito da un’inversione di tendenza che ha riportato il grado di rischiosità sui livelli osservati nel 2009, pari a circa il 3% (grafico 1B). Nei paesi core si è osservata invece una leggera evoluzione crescente, che ha portato il tasso di default dall’1,1% medio del 2009 all’1,4% della prima metà del 2013. Con riferimento ai PIGS, l’andamento del tasso di default mostra alcune discontinuità tra il 2010 e il 2012. Il primo salto osservato nel 2010 è legato essenzialmente all’entrata a regime della bad bank in Irlanda, la National Asset Management Agency (NAMA), che ha spinto le banche irlandese a  riconoscere il default di circa un quinto degli impieghi erogati alla clientela retail. La successiva impennata dei default nei PIGS osservata nel giugno del 2012 è invece attribuibile ad un’altra bad bank, quella costituita in Spagna (Sareb – Sociedad de Gestión de Activos procedentes de la Reestructuración Bancaria; per maggiori dettagli si veda Milani, 2013): dal 2011 al 2012 il tasso di default delle banche spagnole è passato dall’1% al 4,5%.

Grafico 2. Tasso di perdita

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Note: PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna; paesi core: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda.
Per PIGS e paesi core il valore medio è ponderato in base al totale attivo del relativo paese. Dato parzialmente stimato per la Grecia a dicembre 2011 e giugno 2012.
Fonte: elaborazioni dell’autore su dati EBA (2014) e BCE.

Il secondo degli indicatori considerati dall’EBA, il tasso di perdita, è definito come il rapporto tra gli accantonamenti effettuati sui nuovi default e il flusso di nuove sofferenze (al lordo degli accantonamenti) da inizio anno. Tale indice offre quindi un’indicazione di quanto “fieno in cascina” le banche stanno accumulando per far fronte alle sofferenze su crediti registrate nell’anno.

Riguardo alla clientela corporate, per l’Italia si osserva un andamento nettamente decrescente (grafico 2A). Una simile dinamica si osserva anche nei paesi core, anche se questi hanno mantenuto un atteggiamento leggermente più prudenziale. Anche nei PIGS la dinamica del tasso di perdita è stata decrescente, anche se meno marcata rispetto a Italia e paesi core, da cui scaturisce un livello medio osservato a giugno 2013 superiore di circa 6,5 e 4 punti percentuali, rispettivamente.

Con un andamento più discontinuo si è invece mosso il tasso di perdita sulla clientela retail (grafico 2B). A differenza di quanto osservato per la clientela corporate, nel caso del retail i dati relativi al giugno 2013 mostrano per l’Italia un valore intermedio tra quello dei PIGS e dei paesi core. Sempre a giugno 2013 si può rilevare come il tasso di perdita sul retail sia superiore a quello del corporate. La minore incidenza di garanzie reali sul comparto corporate, nonché il più alto tasso di default osservato nel grafico 1A, dovrebbe però spingere a un maggior tasso di perdita rispetto al retail, aspetto che si verifica solo con riferimento ai paesi core (per i PIGS il tasso di perdita tra le due tipologie di clientela è sostanzialmente lo stesso).

Conclusioni

La rischiosità dei finanziamenti erogati dalle banche europee mostra una dinamica crescente (in misura significativa) nei paesi periferici, lasciando sostanzialmente immutato il contesto per i paesi core. In Italia i problemi si concentrano soprattutto sulla clientela corporate.

A fronte della maggiore rischiosità osservata, le banche italiane, insieme a quelle degli altri paesi periferici, non sembrano aver adottato politiche di accantonamento particolarmente prudenti fino alla prima metà del 2013. Le misure straordinarie adottate alle fine del 2013 in vista dell’AQR e degli stress test potrebbero però aver migliorato questo quadro (si veda Barucci, Corsaro e Milani, 2014), riportando tutte le banche europee verso un sentiero di maggiore prudenza e robustezza.

 

CoCos (I): caratteristiche e mercato
di Francesca Arosio, Emilio Barucci, Luca Del Viva

Mag 26 2014
CoCos (I): caratteristiche e mercato  <small><small><I> di Francesca Arosio, Emilio Barucci, Luca Del Viva </I></small></small>

I CoCos (contingent capital) rappresentano una risposta alla crisi finanziaria del 2007-08. La crisi ha mostrato come sia difficile per le banche reperire capitali sotto condizioni di stress. Allorché molte banche hanno conosciuto problemi sul fronte della loro solidità patrimoniale, gli Stati sono dovuti intervenire con operazioni di diversa natura che hanno finito per legare tra loro i bilanci delle banche e quelli degli stati. Una liaison che ha portato dalla crisi dei mutui subprime a quella dell’euro. Per rispondere a questi problemi, si è rafforzata l’esigenza di ricondurre la gestione delle crisi (prima dell’evento default) nell’ambito ‘‘privato’’ dei claim holders dell’impresa, Squam Lake working group (2009). L’esperienza della crisi di Cipro e poi quanto previsto dalla Banking Union sul bail in delle banche vanno in questa direzione. Il settore privato già si era mosso in questa direzione con la diffusione degli strumenti ibridi quali i contingent capital. In questo primo articolo ne spieghiamo il funzionamento e il mercato rimandando ad un successivo contributo l’indagine della loro valutazione.

1.     CoCos: Caratteristiche

I Contingent Convertibles (CoCos) sono strumenti ibridi che vengono emessi da banche e altri intermediari finanziari. Sono strumenti di debito che in situazione di stress (prima che l’azienda vada in default) possono essere utilizzati per assorbire le perdite, ridurre il livello di debito e/o rafforzare il patrimonio dell’istituto bancario.

Si tratta di strumenti di debito subordinato che a determinate condizioni (di stress ma non di default) possono essere convertiti in equity (CE CoCo) e/o cancellati parzialmente (PWD CoCo). L’obiettivo dei CoCos è dunque quello di fornire capitali freschi (convertendo il debito) o di ridurre il livello di debito durante periodi di crisi. In momenti di stress, l’emissione di nuove azioni o di prestiti obbligazionari può essere molto onerosa, nel caso di CE CoCo non siamo di fronte a nuovi capitali quanto ad un debito che diviene azioni, e quindi diviene disponibile per coprire eventuali perdite, nel caso di PWD CoCo siamo di fronte ad una diminuzione degli impegni sul fronte del debito.

I CoCos sono classificati a seconda di tre caratteristiche: i) trigger di conversione; ii) meccanismo di loss absorption, iii) conversion ratio.

Trigger di conversione

La conversione dei CoCos può avvenire in via automatica, a discrezione del supervisore o dell’emittente. La conversione automatica si attiva quando il capitale della banca scende sotto una prefissata frazione dei suoi Risk-weighted Assets (RWA). Il capitale può essere misurato rispetto al valore di libro o al valore di mercato. Il trigger rispetto al valore di libro del capitale è tipicamente stabilito in termini di Common Equity Tier 1 (CET1) su RWA. L’efficacia di questa tipologia di trigger dipende dalla frequenza con la quale questi ratios di capitale vengono calcolati, dalla affidabilità e robustezza del loro calcolo, soprattutto con riferimento ai modelli interni utilizzati. Triggers fondati sul valore di libro possono non essere tempestivi nel fotografare la reale situazione della banca. Un trigger fondato sul valore di mercato permette di superare questi inconvenienti ma espone la banca a eventuali manipolazioni di mercato o più semplicemente all’inefficienza dello stesso, Glasserman e Wang (2009). La conversione discrezionale, invece, è attivata in seguito al giudizio espresso dal regolatore sulla solidità finanziaria dell’istituzione bancaria (point of non viability, PONV). Il supervisore può attivare il meccanismo di assorbimento delle perdite se ritiene che questa operazione permetta di prevenire l’insolvenza dell’emittente. Una valutazione nelle mani del supervisore permette di superare i problemi di mancanza di tempestività o inaffidabilità legata ai triggers fondati su valori di mercato o di libro. L’inconveniente di questo meccanismo è rappresentato dall’incertezza in merito alla sua attivazione, un elemento che può incidere negativamente sulla valutazione dello strumento. Infine in alcune realtà, come quella italiana, si osservano CoCos che vengono convertiti in equity per decisione dell’emittente.

Al fine di alleviare effettivamente l’istituzione in difficoltà è essenziale che la conversione avvenga tempestivamente e sufficientemente in anticipo rispetto al suo stato di insolvenza. Un CoCo può avere uno o più trigger, anche di tipo diverso. In caso di trigger multipli, il meccanismo di loss absorption è attivato in sequenza.

Meccanismo di “loss absorption”

Un CoCo può alleviare la banca emittente in due modi: con la conversione in equity (CE), che aumenta il livello del CET1 mediante la conversione in azioni a un predeterminato conversion rate, mediante il write-down di tutta o di una parte del principal. Nel primo caso lo strumento assomiglia ad un’obbligazione convertibile di tipo callable in quanto i possessori di CoCos ricevono azioni in cambio dello strumento di debito. E’ bene sottolineare che la conversione trasforma la seniority di un claim, non fornisce nuove risorse finanziarie, cambia la sua natura, rendendola più junior, questo passaggio migliora la qualità del capitale regolamentare, rende le risorse capaci di coprire eventuali perdite e riduce il livello di debito. Nel caso di un PWD CoCO, si osservano somiglianze con una ri-negoziazione automatica del debito: i possessori di CoCos si vedono ridurre il valore facciale del loro debito. In alcuni casi si prevede la sospensione del pagamento della cedola.

Conversion ratio

Nel caso conversione in equity (CE), il conversion ratio definisce il numero di azioni che il titolare di CoCo riceverà in cambio delle obbligazioni. La conversione può avvenire secondo due diverse modalità: i) ai prezzi di mercato (delle azioni e dei bond) nell’istante in cui avviene la conversione, Barucci e Del Viva (2011); ad un prezzo prefissato, Bolton e Samama (2012). La prima opzione potrebbe comportare un’elevata diluizione per gli azionisti in quanto è assai probabile che il prezzo delle azioni non sia elevato al momento della conversione. L’eventuale diluizione potrebbe portare gli azionisti a mettere in atto azioni per evitare la conversione. Al contrario, fondare la conversione su un prezzo stabilito a priori limita l’effetto diluitivo e il conseguente incentivo per gli azionisti a evitare la conversione dei titoli. Una via si uscita a questi problemi è fornita dalla possibilità di stabilire un prezzo di conversione pari al massimo tra il valore delle azioni al momento della conversione e un floor prefissato.

2.     Profili normativi e fiscali

Lo sviluppo del mercato dei CoCos è strettamente legato al trattamento normativo sia dal punto di vista regolamentare/di vigilanza che fiscale.

Secondo Basilea III, i CoCos potrebbero qualificarsi come capitale Additional Tier 1 (AT1) o Tier 2 (T2). L’attuale struttura di Basilea III prevede due elementi chiave per valutare gli strumenti finanziari ai fini regolamentari: (i) un requisito di attivazione PONV (point of non viability), che si applica a tutti gli strumenti AT1 e T2, (ii) un requisito di going-concern contingent capital, che si applica solo agli strumenti AT1 classificati come passività.

L’inclusione delle clausole di PONV nei CoCo è motivata principalmente da considerazioni di ammissibilità al capitale regolamentare. La scelta del livello di trigger è guidata dal trade-off tra considerazioni di ammissibilità al patrimonio di vigilanza ed il costo di emissione: tanto maggiore è il trigger tanto più onerosa sarà l’emissione. Al fine di soddisfare requisiti di capitale sempre più elevati, negli ultimi anni le banche hanno emesso sempre più spesso CoCos con trigger points pari o superiori al minimo prefissato per soddisfare il requisito di going concern contingent capital, ed essere così ammessi al capitale AT1. Sotto Basilea III (direttiva CRDIV), tale limite è pari al 5,125% in termini di CET1/RWA. Nel quadro di Basilea III, tutti gli strumenti AT1 devono essere perpetui. Per questo motivo oltre un terzo dei CoCo bonds emessi finora non hanno data di scadenza. La regolamentazione non prevede un meccanismo automatico tra attivazione del trigger per i CoCos e impossibilità di pagare dividendi, non si stabilisce neppure se il write down dei PWD CoCo debba essere permanente o possa essere temporaneo.

In aprile la BCE ha stabilito che i CoCos possono essere utilizzati per colmare un eventuale deficit patrimoniale che risulti dall’Asset quality review nello scenario di base degli stress test. Per la BCE gli strumenti AT1 potranno essere usati dalle banche per rafforzare il capitale sino all’1% dei loro RWA, con preferenza per quelli che si trasformano prima in capitale in caso di crisi e, dunque, i più rischiosi per i detentori. Infatti gli strumenti con livello di conversione sotto il 5,5% non potranno essere usati, quelli tra il 5,5 e il 6% solo fino allo 0,25%; quelli tra 5.5% e 7% potranno valere fino allo 0.5%, quelli con un trigger superiore al 7% potranno valore fino all’1% del deficit di capitale. La possibilità di bail in prevista dall’Unione bancaria dovrebbe dare un ulteriore sviluppo all’emissione di CoCos.

Lo sviluppo del mercato dei CoCos è stato limitato anche dall’incertezza in merito alla deducibilità delle loro cedole, in alcuni paesi questo era previsto in altri no. Vale la pena di osservare che il trattamento fiscale dei CoCos influisce significativamente sul costo degli strumenti per le banche emittenti. Vi è ancora una notevole incertezza, stime preliminari suggeriscono che circa il 64 % dei CoCo bond hanno coupon fiscalmente deducibili. Problemi di non deducibilità possono emergere soprattutto nel mercato statunitense. Nel dicembre 2013, il Parlamento ha approvato la deducibilità fiscale delle cedole di questi titoli.

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3.  Il mercato dei CoCos

Il mercato dei CoCos è ancora relativamente piccolo, ma sta crescendo e ci si aspetta che cresca ulteriormente nei prossimi anni. La prima emissione di contingent capital è stata quella di Lloyds nel Novembre 2009. A seguire abbiamo le emissioni di Credit Suisse, Rabobank, Barclays, UBS. Le banche inglesi sono state le più attive, avendo emesso più di 21 miliardi di dollari di questi strumenti ibridi. A seguire si collocano le banche svizzere, con circa 15 miliardi di dollari. Le banche svizzere hanno emesso questi strumenti in quanto essi sono in linea con il nuovo regime regolamentare che richiede loro di detenere il 9% dei RWA in strumenti “loss-absorption”. A settembre 2013, le emissioni di CoCos a partire dal 2009 ammontavano a 70 miliardi di dollari, nello stesso periodo le banche avevano emesso 500 miliardi di debito subordinato non Cocos e oltre 4 trilioni di debito unsecured. Secondo una ricerca di Barclays, nel primo trimestre di quest’anno il mercato dei CoCos è cresciuto del 25% su base annua: i 17 bond AT1 emessi sul mercato di 11 emittenti hanno raccolto 47 miliardi.

Le prime emissioni di CoCos prevedevano soprattutto il meccanismo della conversione in equity. La ragione principale di questa tendenza è che i CE CoCos sono meno onerosi rispetto ai PWD Cocos (vedi il secondo contributo). Nel corso del tempo, la frazione delle emissioni di PWD CoCos è cresciuta, la ragione di questa tendenza è da rintracciare nell’interesse crescente verso questo strumento da parte degli investitori a reddito fisso i cui mandati spesso impediscono loro di partecipare ai CE CoCos. Come risultato, i PWD CoCos hanno rappresentato più della metà delle emissioni di CoCos totali nel 2013.

La domanda di questi titoli è giunta principalmente da investitori retail e da piccole banche private. I grandi investitori istituzionali sono invece entrati in misura limitata in questo mercato, almeno fino alle fine del 2013. La domanda è arrivata in particolar modo da banche private in Asia e Europa, a seguire da investitori istituzionali americani, alla ricerca di classi di investimento alternative e, infine, da istituzioni finanziarie europee non bancarie.

Una delle ragioni che ha limitato il mercato dei CoCos risiede nell’assenza di un insieme completo di rating creditizi. I mandati di molti investitori istituzionali impediscono loro di detenere strumenti finanziari che non possiedano un rating o che abbiano rating al di sotto di un certo livello. Le agenzie di rating sono state riluttanti nel classificare questi strumenti a causa dell’eterogeneità nel loro trattamento regolamentare all’interno delle varie giurisdizioni e della loro complessità. Inoltre vi è la preoccupazione che gli high-trigger CoCos possano portare ad invertire la tradizionale gerarchia tra gli investitori: può accadere che i titolari di questi titoli incorrano in perdite superiori  rispetto a quelle subite dagli azionisti. Infine la presenza di trigger discrezionali crea incertezza riguardo alla loro valutazione.

UniCredit è stata la prima fra gli istituti di credito italiani a fare ricorso a questi strumenti nel Luglio 2010. La banca ha emesso un bond ibrido, capace di impattare sul Tier 1, con un tasso fisso del 9,375% per i primi dieci anni e la facoltà per l’emittente di un esercizio anticipato a partire dal decimo anno, previa autorizzazione di Banca d’Italia. Il trigger, dato dal total capital ratio, fu fissato al 6%. Il valore dell’emissione era di 500 milioni di euro. Intesa Sanpaolo ha emesso un titolo analogo nel settembre dello stesso anno per un controvalore di un miliardo di euro, con cedola del 9,5% per i primi 5 anni e un trigger dato dal total capital ratio al 6%. Nel Marzo 2014 Unicredit si è riproposta sul mercato con l’emissione del primo bond ibrido di tipo Additional Tier 1 in Italia. Si tratta di un’obbligazione perpetua in dollari, callable dopo il decimo anno con un trigger al 5.125% di core equity Tier 1. In caso di raggiungimento di tale soglia, verrà interrotto il pagamento delle cedole fino a che il Tier 1 non si riporterà sopra il 5.125%.

 

Fonti:

Avdjiev et al. (2013). Stefan Avdjiev, Anastasia Kartasheva e Bilyana Bogdanova. “CoCos: a primer”. BIS Quarterly Review, Sepetember 2013.

Barucci, E. and Del Viva, L. (2011). Dynamic Capital Structure and the Contingent Capital Option,Annals of Finance, 2013, vol. 9, issue 3, pages 337-364.

Bolton, Patrick and Samama, Frédéric (2012) Capital access bonds, Economic Policy, 277-317.

BCBS (2010). Basel Committee on Banking Supervision. “Basel III: A global regulatory framework for more resilient banks and banking systems” December 2010 (rev June 2011) .

Glasserman, Paul e Wang, Zhenyu. (2009) Valuing the Treasury’s Capital Assistance Program. Federal Reserve Bank of New York, Staff Report no.413.

Squam Lake working group (2009) An expedited resolution mechanism for distressed financial firms: regulatory hybrid securities,  working paper.

 

 

 

 

L’ESMA ha avviato il processo di consultazione per l’attuazione della MiFID II e del Regolamento MiFIR.

Mag 23 2014

L’ESMA ha avviato il processo di consultazione per l’attuazione della MiFID II e del Regolamento MiFIR. Questo rappresenta il primo passo nel processo di traduzione dei requisiti MiFID II/ MiFIR in  norme e regolamenti applicabili nella pratica ed idonei ad affrontare gli effetti della crisi finanziaria, a migliorare la trasparenza dei mercati finanziari e rafforzare la tutela degli investitori.

Il termine per le risposte ad entrambi i documenti è il 1 agosto 2014.

 

Comunicato stampa

Consultation Paper on MiFID II/MiFIR

Discussion Paper on MiFID II/MiFIR