BIS, aggiornamento degli indicatori sulla liquidità globale

Mar 19 2014

Pubblicati i dati degli aggregati di liquidità globale aggiornati al mese di marzo 2014.

Le politiche monetarie accomodanti, mitigate dal tapering statunitense, rischiano di aumentare le differenze nella crescita del credito e nelle condizioni dei mercati finanziari tra le economie avanzate e i mercati emergenti. Il credito interbancario rimane piatto o in diminuzione nella maggioranza dei casi analizzati.

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Comitato di Basilea: ponderazione del rischio di ESM e EFSF

Mar 19 2014

Il Comitato di Basilea ha deciso che lo European Stability Mechanism (ESM) e lo European Financial Stability Facility (EFSF) potranno far parte di quelle entità la cui ponderazione del rischio è pari allo 0%. I crediti verso le due istituzioni europee saranno altresì inclusi negli High Quality Liquid Assets di Livello 1.

Raggiunto compromesso sull’UCITS V

Mar 18 2014

Il Consiglio dell’Unione Europea ha raggiunto un testo di compromesso sulle nuove norme sugli investimenti collettivi in valori mobiliari. L’obiettivo è quello di emendare il precedente testo, datato 2009; il nuovo accordo, che dovrà ora essere sottoposto all’approvazione del Consiglio e del Parlamento, si sofferma sulle funzioni del depositario, sulle politiche di remunerazione e sulla possibilità di sanzioni.

 

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Prudential Valuation dei derivati (AVA)
di Michele Bonollo e Daniele Marazzina

Mar 18 2014
Prudential Valuation dei derivati (AVA) <small><small><I>di Michele Bonollo e Daniele Marazzina</I></small></small>

L’EBA ha pubblicato il Consultation Paper EBA/CP/2013/28 per proporre un’unica metodologia di calcolo dell’Additional Valuation Adjustment (AVA) riguardo alla valutazione prudenziale di tutte le posizioni misurate al fair value, come richiesto da Basilea 3. Nonostante la scadenza per applicare questa valutazione sia vicina (la normativa è in vigore dal 1 Gennaio 2014 e prevede come data di prima applicazione la fine del primo quadrimestre del 2014), una documentazione definitiva per il calcolo dell’AVA non è ancora disponibile. Il nostro obiettivo è evidenziare le modalità di calcolo e le criticità annesse basandoci sul materiale ad oggi disponibile. In particolare l’EBA propone di calcolare l’AVA attraverso un Simplified Approach, a prima vista di semplice attuazione, ma non privo di punti oscuri, oppure un Core Approach, molto più complesso da calcolare, ma meno “punitivo” in termini di capital requirements. Quest’ultimo approccio sarebbe comunque applicabile a non più di nove banche italiane.

1.     La Situazione

L’European Banking Authority (EBA) ha pubblicato in data 10 luglio 2013 il Consultation Paper EBA/CP/2013/28 contenente un draft Regulatory Technical Standards (RTS) dal titolo “On Prudential Valuation under Article 105(14) of Regulation (EU) 575/2013”.

Lo scopo di tale pubblicazione dell’EBA è quello di determinare un valore prudenziale che possa raggiungere un appropriato grado di certezza considerando allo stesso tempo come le posizioni del trading book contribuiscono in modo rilevante al risultato (Utile/Perdita) del Conto Economico. Ricordiamo che una parte del risultato del portafoglio finanziario è di tipo Realized, cioè legato a strumenti finanziari acquistati e venduti, quindi con risultato certo derivante dal differenziale di prezzo. Ma una parte spesso rilevante del risultato di bilancio è determinato dalle posizioni Unrealized, in cui cioè nel conto economico affluisce la differenza tra prezzo di acquisto e valutazione. Da questo dato di fatto consegue l’esigenza di un maggior presidio e prudenza negli standard internazionali di valutazione. Per effettuare quindi una prudent valuation delle posizioni misurate al fair value, e perché questa sia calcolata in maniera uniforme dalle diverse istituzioni finanziarie, l’EBA prevede due metodologie di calcolo dell’Additional Valuation Adjustment (AVA). La necessità di introdurre tale regolamentazione nasce dalla Capital Requirements Regulation (CRR) 575/2013, detta “Basilea 3”, in vigore dal 1 Gennaio 2014, nella quale viene definito l’obbligo per le istituzioni finanziarie di effettuare la prudential valuation da detrarre al Common Equity Tier 1 capital. Si noti che l’Articolo 34 di “Basilea 3” richiede una prudential valuation applicata a tutte le posizioni misurate al fair value. Per questo il calcolo dell’AVA si deve applicare a tutte le posizioni, siano esse appartenenti al trading book o al banking book.

La valutazione al fair value è legata all’IFRS 13 “Fair Value Measurement”, in vigore dal 1 gennaio 2013. Tale regolamentazione definisce il fair value come “il prezzo che dovrebbe essere ricevuto per vendere un’attività o che dovrebbe essere corrisposto per estinguere una passività in una transazione normale tra partecipanti al mercato alla data della valutazione”. Il market price di un asset finanziario liquido in un mercato attivo è certamente la quotazione più affidabile per il suo fair value. Molti sono però i casi in cui le informazioni sulle transazioni e valori di scambio non sono disponibili: in tutti questi casi è necessario ricorrere a tecniche di valutazione descritte nella documentazione IFRS. “Basilea 3” richiede ora di aggiungere alla stima del fair value anche la stima prudenziale determinata dall’AVA.

2.     Scadenze

Il Consultation Paper EBA/CP/2013/28 è rimasto in consultazione fino all’8 ottobre 2013, in concomitanza con uno studio di impatto (Quantitative Impact Study – QIS) terminato il 15 novembre dello stesso anno. Le prossime scadenze dovrebbero quindi vedere la pubblicazione di una versione finale della RTS (Regulatory Technical Standards) per il primo quadrimestre del 2014 (*), e un’approvazione finale da parte della UE nel terzo quadrimestre dello stesso anno, salvo eventuali rinvii.

3.     Il Calcolo dell’AVA

L’EBA prevede due modalità di calcolo: una semplificata (Simplified Approach) e una evoluta (Core Approach). L’approccio semplificato si applica solo alle istituzioni finanziarie avente la somma dei valori assoluti di attività e passività, valutate al fair value, inferiore a €15bn. Qualora un’istituzione finanziaria smetta di soddisfare tale requisito per due quadrimestri consecutivi, dovrà notificarlo immediatamente all’EBA e organizzare un piano per il passaggio al Core Approach. Si noti che, considerando i dati di bilancio al 31 Dicembre 2012, solo nove banche italiane rientrerebbero fra quelle che devono ricorrere al Core Approach (Tabella 1).

Tabella1

Il Simplified Approach prevede di calcolare l’AVA come somma del 25% del profitto netto non realizzato sulle posizioni al fair value, e lo 0.1% della somma delle attività e passività tenute al fair value.

Il Core Approach invece prevede il calcolo dei singoli AVA richiesti dalla normativa Article 105(10) e (11) della regolamentazione EU 575/2013, e stabilisce regole per la loro aggregazione. In particolare, nove diversi AVA vengono considerati, e il Consultation Paper EBA/CP/2013/28 spiega come calcolarli:

  1. Incertezza sulle quotazioni di mercato (articolo 8)
  2. Costi di chiusura (articolo 9)
  3. Differenziali creditizi non realizzati (articolo 10)
  4. Rischi di modello (articolo 11)
  5. Posizioni concentrate (articolo 12)
  6. Costi di investimento e costi di finanziamento (articolo 13)
  7. Costi amministrativi futuri (articolo 14)
  8. Chiusure anticipate (articolo 15)
  9. Rischi operativi (articolo 16).

Nel caso in cui non sia possibile calcolare gli AVA come descritto, ad esempio a causa della mancanza dei dati necessari, la regolamentazione permette di valutarli come somma

(a)    del 100% del profilo netto non realizzato sulle posizioni al fair value ;

(b)   del 10% del valore nominale, per i derivati, oppure del 25% del valore di mercato ridotto dell’ammontare calcolato in (a) .

Per quanto riguarda il calcolo dell’AVA su “incertezza sulle quotazioni di mercato” (1) esso è in parte legato alle gerarchie del fair value definite nell’IFRS 13. Tale regolamentazione presenta tre livelli gerarchici: il livello 1 è legato agli strumenti finanziari liquidi in un mercato attivo, in questo caso il fair value è il market price; il livello 2 contiene quegli strumenti il cui prezzo è osservabile, ma che non appartengono al livello 1 (e.g., strumenti finanziari quotati in mercati non particolarmente attivi); infine il livello 3 contiene tutti gli asset o i debiti i cui prezzi non sono osservabili. Anche se non ufficialmente stabilito, ci sembra ragionevole ritenere che questo AVA debba essere zero per gli strumenti di livello 1, mentre debba essere calcolato per gli altri strumenti, per questi strumenti il calcolo dovrebbe essere effettuato con la stessa modalità del Simplified Approach, come dettagliato nell’Articolo 8 della documentazione EBA/CP/2013/28.

Riteniamo sia anche importante soffermarci sugli AVA relativi ai “rischi di modello” (4) e ai “rischi operativi” (9). Mentre nel primo caso la regolamentazione si riferisce alla valutazione del rischio causato della potenziale esistenza di una serie di modelli diversi utilizzati o dalla calibrazione dei modelli sui dati di mercato, nel secondo caso ci si riferisce alle potenziali perdite che possono essere sostenute a causa del rischio operativo relativi ai processi valutativi, cioè al rischio di perdite dovute ad errori, infrazioni, interruzioni di attività e danni causati da processi interni o da eventi esterni. Appare evidente come i due temi siano fortemente correlati e di difficile separazione. Si prenda ad esempio il caso della valutazione di un derivato: i rischi operativi hanno a che fare con la complessità del payoff, e quindi con i possibili errori che riguardano sia il modello valutativo (inclusione di tutti i fattori di rischio, metodi di calibrazione e loro frequenza), sia la sua implementazione fisica (il codice software di valutazione e analisi del rischio), sia i processi automatici (provider) e manuali (dipartimenti di front e middle office) di  maintenance del deal – si pensi a eventi di fixing e corporate action sui prodotti path dependent. Infine la necessità di valutare tale derivato spesso spinge le istituzioni finanziarie a considerare più di un modello di valutazione. Pertanto il rischio operativo e di modello hanno forti elementi di contiguità. Solitamente questo succede per prodotti complessi che non appartengono al level 1 delle gerarchie del fair value. Si deve quindi tenere conto in modo particolare del rischio dell’incertezza sulle quotazioni di mercato, ad esempio nella calibrazione dei modelli. In sintesi, il perimetro che divide le nove categorie suggerite da “Basilea 3” e riprese dalla regolamentazione sugli AVA non è marcatamente delineato, e questo può generare fenomeni di double counting e/o errori, con difficile quantificazione oggettiva dei componenti dell’AVA.

4.     Criticità

Il calcolo dell’AVA pone diverse criticità non del tutto risolti da un punto di vista pratico.

4.1 Ragionevolezza dell’impianto metodologico: Anche l’apparentemente ‘‘basico’’ Simplified Approach (che riguarderà la grande parte delle banche italiane) ha alcuni punti non del tutto ovvi. Da un lato la previsione di una percentuale sui profitti unrealized (25%)  e una percentuale sulla somma “lorda” dei fair value (0.1%) correttamente consentono di legare la rettifica di valore AVA rispettivamente all’ammontare dei profitti e ai volumi di operatività, di cui il la somma lorda dei fair value (detta anche gross mark to market) rappresenta una proxy. Dall’altro, la mancata applicazione dell’AVA in caso di profit&loss negativo non sembra avere un razionale: ci potrebbero essere perdite unrealized anche maggiori di quelle già determinate, anzi questo è forse un caso che merita maggiore attenzione rispetto alla sovrastima dei profitti. Inoltre, poiché banche con valori di fair value simili possono contenere esposizioni (delta equivalent o vega equivalent) anche tra loro molto diversi, la percentuale sul fair value potrebbe essere un criterio troppo rozzo a causa diversa volatilità degli strumenti pur con medesimo fair value.

Per quanto riguarda i capital requirements, il Simplified Approach, seppure più immediato del Core Approach, sembra essere eccessivamente punitivo, e potrebbe portare ad un eccessivo incremento dei requisiti di capitale. Lo stesso vale per la regola del Core Approach da applicare qualora non si riuscisse a utilizzare le metodologie proposte in EBA/CP/2013/28, Articoli 8-16: considerare il 10% del valore nominale della posizione in derivati sembra essere una richiesta eccessivamente forte.

Riteniamo inoltre che la disciplina AVA avrebbe dovuto essere maggiormente raccordata a principi contabili quali l’IFRS 13 sul fair value measurement. Soprattutto, per valuation input di tipo matriciale o illiquido, mancano i riferimenti agli strumenti al fair value di livello 3, quelli cioè per cui, mancando un mercato di quotazione o liquidità degli underlying, alle banche viene chiesto nel financial report maggiore granularità di disclosure.  Per dare un ordine di grandezza, osserviamo che banche quali BNP Paribas e Deutsche Bank hanno circa 40 bn € di fair value (Bilancio 2012) di derivati in questa classe, mentre in Italia, sempre con riferimento al Bilancio 2012, le banche più esposte sono Mediobanca, Unicredit e Intesa SanPaolo con un’esposizione di poco più di 2 bn €.

Concludendo, in relazione ai building block dell’AVA, in merito al rischio operativo oltre al tema delle possibili dispute tra le controparti nelle operazioni di calcolo e regolamento del payoff, andrebbe data maggiore enfasi, o se possibile quantificazione, alla complessità di gestione (i.e. fixing per strumenti path dependent, controlli di barriere, ecc) del deal derivato, e le perdite da errori che può determinare.

4.2 Applicabilità: A livello di applicabilità, sia il Simplified Approach che il Core Approach richiederanno un investimento in termini di tempo e risorse umane da parte delle istituzioni finanziarie: questo perché il calcolo richiede una notevole serie di dati, opportunatamente aggregati, che non sempre sono già in possesso delle istituzioni finanziarie. Ad esempio, con riferimento al Simplified Approach, l’inclusione di profitti netti non realizzati, oltre ad essere considerata una misura non di interesse da parte di alcune istituzioni ad oggi, può essere di difficile applicazione, data la usuale mancanza di dati disaggregati fra profili netti realizzati e non.

Rispetto al Core Approach, appaiono inoltre di difficile applicazione concreta alcuni principi, quali quello del target level del 90% sul range dei valori possibili, e il non chiaro confine tra approcci probabilistici e il ricorso a quelli expert based di consenso.

4.3 Scadenze: Una importante criticità generale è sicuramente legata alle scadenze, dato che la CRR 575/2013 sembrerebbe richiedere l’uso degli AVA nel primo quadrimestre del 2014, mentre la documentazione finale riguardante il calcolo degli AVA vedrà la luce nel secondo/terzo quadrimestre (*). Al momento non sembra che la documentazione presente sia sufficientemente chiara e completa per un calcolo univoco e non ambiguo degli AVA, ma richiede un approfondimento sia legato ai dati da utilizzare, e a come aggregarli, sia un approfondimento nella definizione degli otto AVA, per ora presentati come elenco e tramite definizioni troppo generali nelle normative e nella regolamentazione.

(*) L’Eba ha pubblicato il final draft sulla Prudential Valuation il 31 Marzo 2014, successivamente alla pubblicazione di questo articolo

http://www.eba.europa.eu/documents/10180/642449/EBA-RTS-2014-06+RTS+on+Prudent+Valuation.pdf

Riferimenti

[1] M. Bianchetti, U. Cherubini   (2013) AIFIRM – Associazione Italiana Financial Risk Management – Commissione Rischio di Mercato – Gruppo di lavoro “Prudent Valuation” – Abstract e impostazione dell’attività (http://www.aifirm.it/?p=1273)

[2] Autorità bancaria europea – EBA (2013) Consultation Paper EBA/CP/2013/28
(
http://www.eba.europa.eu/documents/10180/336425/EBA_CP_2013_28.pdf)

[3] IFRS Foundation (2013) IFRS13 – Fair Value Measurement
(http://www.ifrs.org/current-projects/iasb-projects/fair-value-measurement/Pages/fair-value-measurement.aspx)

[4] ISDA (2013) Response of the Association for Financial Markets in Europe (AFME) and International Swaps and Derivatives Association, Inc. (ISDA) to the European Banking Authority (EBA) Consultation Paper On “Draft Regulatory Technical Standards on prudent valuation under Article 105(14) of Regulation (EU) 575/2013 Capital Requirements Regulation (CRR) – (EBA/CP/2013/28)”
(http://www2.isda.org/attachment/NTk3NA)

Risk Management: ultimi giorni per iscriversi

Mar 17 2014

Ultimi giorni per iscriversi al modulo Risk Management (88 ore) del Percorso Executive in Finanza Quantitativa: lezioni dal 13 Aprile 2014.

Il modulo offre competenze riguardo alla gestione del rischio partendo dai fondamenti (VAR, stima, metodo Delta-Normal, backtesting, ecc.) affrontando anche aspetti implementativi. Ci si concentra poi sulle problematiche connesse alla gestione del rischio negli intermediari bancari e negli intermediari assicurativi (rischio di credito, rischio controparte, ecc.).

La quota di partecipazione è di 4.000 euro (Iva esente). Sono previste agevolazioni per le iscrizioni a titolo personale e quotazioni ad hoc per iscrizioni aziendali a più di un modulo.

Per informazioni e iscrizioni:

Silvia Folador 
Tel. +39 02 2399 9187
Fax +39 02 2399 2844
sfolador@mip.polimi.it

www.mip.polimi.it/finanzaquantitativa

Pubblicati nove standard tecnici per l’applicazione di CRR / CRD IV

Mar 14 2014

La Commissione europea ha approvato oggi nove standard tecnici destinati a implementare un regolamento uniforme nel sistema bancario. Le norme definiscono gli obblighi di informazione sulle attività di cartolarizzazione, le modalità di misurazione di potenziali perdite dovute a derivati e al fallimento della controparte e i tipi di strumenti che potranno essere usati per erogare bonus.

Per leggere il comunicato stampa, premere qui.

Pubblicato il bollettino mensile della BCE (marzo 2014)

Mar 13 2014

La BCE ha pubblicato oggi il bollettino mensile di marzo. L’istituto guidato da Mario Draghi ha compiuto le sue usuali previsioni sull’andamento del PIL e dell’inflazione nell’eurozona; quest’ultima, in particolare, rimane debole e non raggiungerà livelli prossimi al 2% sino alla fine del 2016. Oggetto di analisi sono stati anche gli sviluppi nella bilancia dei pagamenti e l’implementazione del semestre europeo.

Qui il documento ufficiale.

Una vera rivoluzione: il Single Resolution Mechanism
di Concetta Brescia Morra e Giulia Mele

Mar 12 2014
Una vera rivoluzione: il Single Resolution Mechanism <small><small><I>di Concetta Brescia Morra e Giulia Mele</I></small></small>

Le autorità europee hanno proposto di recente la creazione di un sistema accentrato per la gestione delle crisi bancarie nei paesi aderenti all’area euro: il Single Resolution Mechanism (SRM).

L’obiettivo del SRM è triplice:

  • ridurre il “costo sociale” delle crisi bancarie,
  • porre un freno al moral hazard delle banche che è stato alimentato anche dai salvataggi pubblici,
  • rompere il circolo vizioso tra crisi del debito sovrano e crisi degli intermediari.

Questi obiettivi sono perseguiti cercando di creare un terreno comune tra i diversi paesi dell’area euro e/o dell’unione.

Il SRM rappresenta il secondo pilastro del progetto di Unione Bancaria. Un progetto che si compone di altri due pilastri: il Single Supervisory Mechanism (SSM), il sistema unico di assicurazione dei depositi. L’implementazione dei tre pilastri procede a velocità diverse. Il primo è in fase di costruzione avanzata dal momento che in ottobre è stato approvato il Regolamento n.1024/2013 che attribuisce alla Banca Centrale Europea (BCE) compiti di vigilanza prudenziale sulle banche “di rilevanza significativa” degli Stati dell’euro-zona o di quelle che, pur non facendone parte, decidano di aderirvi. Sul secondo pilastro, esistono sia una proposta di regolamento [1] – applicabile agli stati dell’euro-zona e a quelli che decidano di aderirvi – sia una proposta di direttiva [2], applicabile a tutti gli Stati membri. Il terzo pilastro, quello dei sistemi di garanzia dei depositi, è stato al momento accantonato.

Le novità principali della proposta sono:

  • un sistema di “mutualizzazione delle perdite” fra gli intermediari bancari europei.
  • il costo del salvataggio delle banche in difficoltà sarà a carico degli azionisti, ma anche dei creditori, compresi i depositanti
  • grazie al meccanismo di bail in e il sistema di mutualizzazione delle perdite, l’onere a carico dei contribuenti dovrebbe essere residuale.

1.       Il funzionamento

Il meccanismo di risoluzione ha l’obiettivo di traghettare le banche fuori dalla crisi salvaguardando la stabilità del sistema finanziario e riducendo al minimo l’impatto negativo sui depositanti e sui contribuenti. A tutela dei creditori è previsto che nessun creditore riceva, da questa procedura, meno di quello che avrebbe ricevuto applicando le tradizionali procedure di insolvenza nazionali (no creditor worse off, NCWO) e che tutte le decisioni assunte nell’ambito della procedura, saranno ricorribili davanti alla Corte di giustizia. La base giuridica per la proposta è l’art. 114 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che consente l’adozione di misure di ravvicinamento delle disposizioni nazionali che hanno per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno.

La proposta di regolamento istituisce un’autorità per la risoluzione delle crisi, il Single Resolution Board, composto da un direttore esecutivo, da un componente nominato dalla Commissione e da uno nominato dalla BCE e infine da un membro nominato da ciascuno stato partecipante al meccanismo. Il Board si riunisce in due formazioni: sessione esecutiva e sessione plenaria. In sessione plenaria il Board adotta decisioni di carattere generale, in sessione esecutiva vengono assunte tutte le decisioni relative alla gestione della risoluzione; in alcuni casi, tuttavia, tale potere viene attribuito alla sessione plenaria la quale, ad esempio, deve autorizzare le decisioni che comportano un sostegno di liquidità superiore al 20% del capitale del fondo unico di risoluzione. Il Board in sessione esecutiva è composto dal direttore esecutivo, dal vicedirettore esecutivo e da quattro rappresentati nominati dal Consiglio su proposta della Commissione. Il numero ridotto di membri presenti nella fase decisionale dovrebbe accelerare il procedimento rendendolo più efficace. La costituzione di questo nuovo organo mira accentrare in un unico soggetto il potere decisionale durante la fase di risoluzione. Obiettivo questo che, invece, non potrà essere centrato per gli stati non facenti parte dell’euro per i quali la proposta di direttiva rimanda alle decisioni delle autorità nazionali.

La coesistenza di fonti normative diverse, la direttiva e il regolamento sulla “risoluzione delle crisi bancarie”, potrà creare problemi applicativi. Il rischio è parzialmente risolto dal fatto che i meccanismi di risoluzione proposti hanno caratteristiche pressoché coincidenti. A garantire una certa omogeneità nell’applicazione del meccanismo unico di risoluzione contribuisce anche l’art. 5 della proposta di regolamento che stabilisce che i poteri che la proposta di direttiva attribuisce alle autorità nazionali spettano al Board per i paesi che aderiscono al SRM.

2.      Le tre fasi

Il SRM dota le autorità competenti (a seconda dei casi la Commissione/Consiglio/Board o le autorità nazionali) di strumenti idonei a prevenire le crisi bancarie, intervenendo quando le condizioni della banca si siano “deteriorate” e quando la crisi sia ormai manifesta. Le fasi sono così suddivise:

  • Pianificazione del risanamento (preparation and prevention);
  • Intervento precoce (early intervention);
  • Risoluzione delle crisi.

La fase della pianificazione del risanamento è quella in cui sono adottate misure preparatorie e piani volti a prevenire e a risolvere tempestivamente le crisi bancarie. In particolare ci si riferisce ai piani di risoluzione (resolution plans) e ai piani di risanamento (recovery plans). Tanto la proposta di direttiva che quella di regolamento attribuiscono la redazione dei primi all’autorità preposta alla gestione della crisi, mentre i secondi verranno predisposti dalle banche.

La fase dell’intervento precoce riguarda un momento in cui la situazione di una banca comincia a deteriorarsi, ovvero quando questa non è ancora insolvente ma versa in una situazione economica di difficoltà che potrebbe condurre allo stato di insolvenza. Sia la proposta di direttiva che quella di regolamento individuano analiticamente le modalità di intervento che possono arrivare alla sostituzione del C.d.A. con un amministratore straordinario. Le autorità coinvolte in questa fase sono quelle nazionali, per quanto riguarda i Paesi che non adottano la moneta unica, e il Board e la BCE per gli stati dell’euro-zona. Poteri di early intervention, infatti, sono attribuiti sia al Board dalla proposta di regolamento sia alla BCE dal regolamento che ha istituito il SSM.

La terza ed ultima fase è quella della risoluzione in senso stretto. La scelta del legislatore europeo di utilizzare il termine “resolution” non è di semplice interpretazione. Resolution  non è un termine con un significato preciso nelle legislazioni dei principali paesi europei in materia di gestione delle crisi. La vaghezza del termine ha contribuito a identificare la “risoluzione” con il “fallimento”. Ma si tratta di una conclusione errata dato che la “resolution” si riferisce a una fase in cui la banca versa in uno stato di crisi che è sì endemico ma che non coincide con lo stato di insolvenza. Gli strumenti di “resolution”  anzi servono proprio per il superamento dello stato di crisi.

La disciplina e gli strumenti della “resolution” risultano particolarmente invasivi soprattutto per gli interessi degli azionisti e per questo possono trovare applicazione solo se il dissesto è così grave da escludere l’esistenza di soluzioni alternative capaci di risanare le finanze della banca entro limiti di tempo accettabili. Due sono le condizioni per la sua applicabilità: la banca deve essere “failing or likely to fail”, deve sussistere un interesse pubblico da salvaguardare. La valutazione circa l’esistenza di entrambi i requisiti è rimessa alla BCE la quale deve attenersi a parametri individuati dall’art.16. 3 del regolamento.

Le autorità coinvolte in questa fase sono le autorità nazionali per gli stati che non aderiscono alla moneta unica, per quanto riguarda i Paesi dell’euro-zona il regolamento individua ben quattro autorità competenti: la Commissione, il Consiglio, il Board e la BCE. Il meccanismo di risoluzione è assai complesso con una non chiara demarcazione tra i poteri delle diverse autorità. Il processo decisionale che caratterizza il procedimento è il seguente:

  • la BCE comunica la situazione di dissesto alla Commissione e al Board;
  • il Board in sessione esecutiva valuta se si ponga una minaccia sistemica e se non esistano soluzioni basate sul settore privato;
  • se tale è la situazione il Board in sessione esecutiva redige un piano di risoluzione del quale vengono indicati gli strumenti di risoluzione adottabili (quelli contemplati all’art.19 del regolamento) e le modalità di utilizzo del Fondo unico di risoluzione;
  • una volta elaborato il piano il Consiglio, su proposta della Commissione, può chiedere al Board, entro 36 ore, di modificare il piano di risoluzione; trascorso questo lasso di tempo il piano di risoluzione verrà attuato dalle autorità nazionali competenti.

La criticità della procedura riguarda la possibilità che il Consiglio decida di chiedere una modifica del piano di risoluzione; in questo caso, infatti, si innesca un meccanismo caratterizzato da un numero rilevante di passaggi tra il Consiglio, la Commissione e il Board che procrastinano l’adozione del piano per un periodo ben superiore alle 36 ore inizialmente previste. Si tratta di un’eventualità forse recondita, ma non da escludere, che porterebbe ad una dispersione di tempo assolutamente incompatibile con le esigenze di rapidità e di risolutezza che deve caratterizzare la gestione di una crisi bancaria. Nell’eventualità di contrasto tra le autorità competenti, è difficile che una crisi venga risolta nel tempo di un weekend e nel più assoluto riserbo come avviene oggi da parte dalle autorità nazionali.

3.         Gli strumenti

Per quanto riguarda la tipologia di strumenti utilizzabili per il superamento della crisi, tanto la proposta di direttiva quanto quella di regolamento prevedono quattro possibilità:

a)                  vendita dell’attività d’impresa;

b)                  bridge institution (ente ponte);

c)                  separazione delle attività;

d)                  bail in.

Si tratta di strumenti che potranno essere utilizzati singolarmente o combinati da parte delle autorità preposte. Quanto alle perdite degli azionisti e dei creditori della banca, tanto la proposta di direttiva che quella di regolamento stabiliscono alcuni principi che dovranno essere rispettati indipendentemente da quanto stabilito  dai singoli regimi di insolvenza nazionali e dagli strumenti utilizzati. Tali principi sono i seguenti: a) le perdite devono essere prima assegnate in toto agli azionisti e poi ai creditori e b) i creditori della stessa categoria possono essere trattati in maniera diversa solo se ciò sia giustificabile da ragioni di interesse generale, ad esempio la stabilità finanziaria. Per quanto riguarda lo strumento del bail in, il quadro stabilisce una gerarchia dei crediti più dettagliata.

Lo strumento della vendita dell’attività d’impresa consente di procedere alla vendita dell’ente nella sua totalità, o di una parte della sua attività, a condizioni di mercato, senza dover richiedere il consenso degli azionisti o soddisfare requisiti procedurali altrimenti applicabili.

La bridge institution permette di trasferire la totalità o parte dell’attività di un ente a un’entità controllata da poteri pubblici. La bridge institution deve rispettare la direttiva sui requisiti patrimoniali e sarà gestita come un’impresa commerciale, entro i limiti fissati dal quadro degli aiuti di Stato. L’operatività di un ente-ponte è temporanea: il suo scopo è di vendere l’attività al settore privato quando le condizioni di mercato siano adeguate.

Lo strumento della separazione delle attività ha come fine quello di trasferire attività compromesse o problematiche a un veicolo di gestione dove tali attività verranno gestite e le loro problematicità risolte nel tempo. Le attività dovrebbero essere trasferite al valore di mercato o al valore economico a lungo termine. Al fine di ridurre al minimo le distorsioni della concorrenza e il rischio di azzardo morale, questo strumento dovrebbe essere utilizzato solo congiuntamente a un altro strumento di risoluzione.

Lo strumento del bail in, infine, consentirà alle autorità di risoluzione di ridurre i diritti dei creditori, secondo un preciso ordine di priorità, prima della dichiarazione di fallimento. I creditori potrebbero veder ridotte o cancellate le cedole, ridotto il valore nominale del credito, oppure potrebbero subire la conversione forzata dei loro titoli in azioni. Tra l’altro è previsto, tanto nella proposta di direttiva che in quella di regolamento, che non tutti i crediti della banca siano soggetti al bail in; fra le esenzioni principali vi sono i “depositi garantiti” (ovvero quelli di importo inferiore ai 100.000 euro coperti dal sistema di assicurazione dei depositi già vigente in tutti i paesi europei), ma anche altre passività garantite, ivi compresi i covered bonds. Inoltre all’art. 42 delle linee guida è prevista una escape clause che sancisce la non applicabilità del bail in nell’ipotesi in cui il suo utilizzo possa compromettere la stabilità finanziaria del sistema.

Il principio del bail in si fonda sull’idea che il costo della crisi di una banca debba ricadere in primo luogo su azionisti e creditori della stessa, prima di pesare sulle finanze pubbliche. Lo strumento è immaginato in funzione di un’equa ripartizione dei costi del dissesto e per prevenire il fallimento. Il mancato pagamento delle cedole o il mancato rimborso dei creditori potrebbe attenuare le esigenze di liquidità di una banca in difficoltà, facendo guadagnare tempo per cercare soluzioni che ne evitino l’insolvenza. Il disegno legislativo prevede che, se il bail in è ben disegnato, i creditori non debbano sopportare perdite più elevate di quelle in cui sarebbero incorsi nel caso in cui la banca fallisca e si apra una formale procedura di insolvenza. Vale la pena di osservare che il giudizio ex ante, ossia prima che sia dichiarata l’insolvenza, peraltro è molto difficile ed ex post (ossia in caso di insuccesso delle misure di risoluzione e apertura di una procedura di insolvenza) potrebbe dar luogo a lunghi contenziosi giudiziari.

4.          Il Fondo unico di risoluzione delle crisi bancarie

La proposta di regolamento prevede, anche, l’istituzione di un Fondo unico di risoluzione delle crisi bancarie. L’obiettivo primo del fondo è quello di assicurare la stabilità finanziaria dell’ente dopo la sua ristrutturazione. Il fondo, infatti, è stato pensato come uno strumento di intervento finalizzato a facilitare la risoluzione e non a coprire le perdite le quali dovranno essere finanziato prevalentemente dai claim holders delle banche. Questo non esclude che in casi eccezionali, ovvero quando le risorse interne siano insufficienti a risanare l’ente (purché siano state impiegate almeno l’8% delle passività totali, fondi propri compresi, dell’ente soggetto a risoluzione), il fondo possa essere impiegato per assorbire le perdite o fornire capitali. Il fondo, in ogni caso, potrà coprire solo fino al 5% delle passività della banca.

Perché siano assicurati finanziamenti sufficienti a garantire il buon funzionamento del fondo, il regolamento stabilisce che dovrà essere costituito da contributi obbligatori, versati ex ante, dalle banche europee e in dieci anni dovrà arrivare a coprire lo 0,8% dei depositi di tutte le banche degli stati membri. Tale livello viene considerato sufficiente ad assicurare una risoluzione ordinata delle crisi future a condizione che i creditori e gli azionisti si facciano carico del salvataggio interno per almeno l’8% delle passività totali e dei fondi propri dell’ente soggetto a risoluzione. In base ad una stima effettuata il fondo, tra dieci anni, dovrebbe ammontare a circa 55 miliardi di euro; valore destinato ad aumentare in funzione della crescita del settore bancario. Dato che il fondo sarà operativo, presumibilmente, solo nel 2018 durante la fase di transizione si prevede un meccanismo di “back stop” attuato innanzitutto dai fondi nazionali (che potranno essere sia fondi “privati” eventualmente esistenti nei paesi aderenti, sia fondi “pubblici”, nei limiti in cui possibile secondo la disciplina degli aiuti di Stato) e, solo nel caso in cui questi siano insufficienti, dall’European Stability Mechanism (ESM), istituito nel 2012 con un Trattato fra i paesi dell’area dell’euro per sostenere i paesi aderenti in difficoltà (l’ESM potrà contribuire nella misura massima di 60 miliardi di euro).

Nell’ultima versione della proposta di regolamento, è stato previsto di disciplinare il funzionamento del fondo unico in un apposito accordo intergovernativo che dovrebbe essere stipulato a giorni (1 marzo 2014). Da un lato, la sottoscrizione dell’accordo rappresenta la condizione per partecipare al SRM, dall’altro l’accordo potrà entrare in vigore solo se ratificato da tanti Stati che rappresentino l’80% dei contributi al fondo unico di risoluzione.

Conviene, infine, sottolineare che la proposta di regolamento stabilisce la data del 1 gennaio 2015 per l’entrata in vigore del SRM mentre posticipa l’utilizzabilità dello strumento del bail-in al 1 gennaio 2016. Nella prima fase del suo funzionamento, quindi, il legislatore europeo ha preferito privare il SRM dello strumento più innovativo del nuovo meccanismo di risoluzione. Una scelta che evidenzia la preoccupazione per l’adozione di uno strumento rivoluzionario, ma non privo, come si dirà, di aspetti problematici.

5.      I punti critici

I punti critici del nuovo meccanismo unico di risoluzione sono più di uno.

Il primo problema è quello della possibile sovrapposizione di competenze tra le diverse autorità che, come si è visto, interessano tanto la fase dell’”early intervention” che quella della risoluzione in senso stretto. Quest’aspetto può intralciare la procedura di risoluzione determinando un allungamento del processo decisionale che potrebbe risultare fatale alla banca in difficoltà.

Vale la pena di osservare che la scelta di concentrare il potere decisionale nelle mani del Board è stata oggetto di discussioni perché considerata non compatibile con la posizione assunta dalla Corte di Giustizia in un noto caso giudiziario (decisione del 13 giugno 1958, Case 9-56,), secondo cui  non è legittima la delega di funzioni discrezionali a organi o autorità non previsti dal Trattato (“dottrina Meroni”). L’argomento contro l’accentramento dei poteri in capo al Board ha perso forza a seguito di una recente sentenza della stessa Corte di Giustizia, in merito alla legittimità di un regolamento dell’European Securities Market Autority (ESMA). La Corte [3] ha escluso l’incompatibilità con la “dottrina Meroni” dell’operatività di organi non previsti dal trattato a condizione che i loro poteri siano analiticamente determinati e circoscritti ex ante.

Il secondo profilo problematico è quello relativo all’applicazione delle misure di bail in. Le norme sul bail in presentano tre punti deboli. In primo luogo, è difficile individuare, ex ante, un tasso di conversione dei crediti che assicuri il rispetto del NCWO e che rifletta la gerarchia delle pretese dei creditori. In secondo luogo con questo meccanismo le obbligazioni bancarie diventano più rischiose con inevitabili ripercussioni sul loro “prezzo” rendendo più difficile il finanziamento delle banche. La componente opzionale implicita nelle obbligazioni bancarie rischia di rendere assai complessa la loro valutazione. Ciò è particolarmente pericoloso per le banche italiane a causa delle difficili condizioni del mercato interbancario e per lo strutturale “funding gap” che le caratterizza nel confronto europeo. In terzo luogo, è piuttosto dubbio che un’operazione di “write-off” dei diritti di azionisti e creditori possa essere sufficiente a ridurre significativamente i problemi dell’intermediario e il possibile contagio. Una banca in difficoltà ha in effetti bisogno di un immediato sostegno di liquidità per evitare che la situazione si trasformi in crisi conclamata (bank run). Il bail in non fornisce nuova liquidità, permette soltanto di abbattere gli obblighi finanziari che non portano necessariamente ad un sollievo sul fronte della liquidità. Ne consegue che il bail in non possa rappresentare l’unica soluzione per ridurre il rischio dell’aggravarsi della crisi o quello del contagio, ma deve essere necessariamente utilizzato in un pacchetto di interventi combinati, fra cui in primo luogo quello di “lender of last resort” da parte della Banca centrale, l’unico strumento in grado di superare problemi gravi di illiquidità dell’intermediario in difficoltà.

Infine, l’ultimo aspetto che può dare adito a perplessità è quello legato al trattamento dei depositanti i quali dalla grande crisi degli anni Trenta del secolo scorso ad oggi mai sono stati coinvolti nel “salvataggio” di una banca. Impiegare anche le risorse dei depositanti nel salvataggio di una banca potrebbe spingerli a una corsa agli sportelli che avrebbe come conseguenza la realizzazione dell’evento temuto ovvero il fallimento della banca. Prova ne sia il caso Cipro dove i paesi europei, per evitare di finanziare con soldi dei loro cittadini il salvataggio degli intermediari ciprioti, hanno spinto per una soluzione della crisi che ha imposto rilevanti perdite in capo a tutti i creditori di queste banche, ivi compresi i depositanti. Di fronte a questa decisione si è assistito ad una fuga dei capitali stranieri, con il conseguente indebolimento del sistema finanziario. La misura dei bail in, quindi, è uno strumento che le autorità per la risoluzione di banche europee dovranno usare in maniera molto prudente per evitare di produrre indesiderate conseguenze sul piano della fiducia che i risparmiatori ripongono nella solidità di un sistema finanziario e nella capacità degli Stati sovrani di sostenere i loro sistemi finanziari. In altri termini, misure come queste potrebbero accentuare il pericoloso circolo vizioso fra tensioni nei mercati del debito pubblico degli Stati e difficoltà dei sistemi finanziari, piuttosto che spezzarlo come dichiarato nei documenti Europei alla base anche delle proposte per la risoluzione delle crisi di banche.

Riferimenti

[1] Proposta di Regolamento (2013) (SRM n. 17742/2013) in      (http://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=EN&t=PDF&gc=true&sc=false&f=ST%2017742%202013%20INIT) ;

[2] Proposta di Direttiva (2013) (BRR 11148/1/13 REV 1 COR 1 ) in (http://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=EN&t=PDF&gc=true&sc=false&f=ST%2011148%202013%20REV%201%20COR%201) ;

[3] Corte di Giustizia, (2014) causa C-270/12 Regno Unito c/ Parlamento Europeo, in (http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf;jsessionid=9ea7d2dc30dc85e0f3f189bd41b78023c7e4e87b638b.e34KaxiLc3qMb40Rch0SaxuMchf0?text=&docid=148827&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=260906)  ;

[4] A. Capizzi, S. Cappiello, (2014) Prime considerazioni sullo strumento del bail-in: la conversione   forzosa di debito in capitale, in Atti del convegno orizzonti del Diritto commerciale 2014, in (http://www.orizzontideldirittocommerciale.it/atti-dei-convegni-associativi/2014) ;

[5] S. Micossi, G. Bruzzone, J. Carmassi, (2013) The new european frame work for managing bank crises, in CEPS, (http://www.ceps.be/book/new-european-framework-managing-bank-crises);

[6] G.A. Ferrarini, L. Chiarella, (2013) Common banking Supervision in the Eurozone: Strengths and Weaknesses, ECGI,  (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2309897) ;

[7] Clifford Chance, (2011) Legal aspects of bank bail ins, (http://www.cliffordchance.com/briefings/2011/05/legal_aspects_ofbankbail-ins.html#.Ux8wXT95PbM );

Il rischio di liquidità e Basilea III: LCR e NSFR

Mar 12 2014
Il rischio di liquidità e Basilea III: LCR e NSFR <small><small><I>di Roberto Ottolini e Enrico Ubaldi</I> </small></small>

In risposta alla recente crisi finanziaria che ha rivelato l’importanza della gestione della liquidità per il corretto funzionamento di un intermediario finanziario, il Comitato di Basilea ha introdotto due nuovi standard di liquidità che dovranno essere soddisfatti dagli intermediari creditizi: Liquidity Coverage Ratio (LCR) e Net Stable Funding Ratio (NSFR).

Mentre l’LCR (standard di liquidità di breve periodo) è stato più volte rivisto e affinato, l’NSFR (orizzonte temporale annuale) verrà introdotto in un secondo momento e le sue caratteristiche sono ancora oggetto di analisi. Secondo Banca d’Italia, le banche italiane non incontreranno ostacoli per uniformarsi agli standard richiesti dalla nuova normativa. Alcuni studi condotti da BIS ed EBA, che monitorano periodicamente il processo di convergenza verso gli standard richiesti, mostrano come la maggior parte delle banche a livello internazionale soddisfi già oggi i requisiti.

Le problematiche aperte sono principalmente tre:

  • effetti sul ruolo delle banche in merito alla trasformazione delle scadenze,
  • possibili distorsioni sul mercato conseguenti alla concentrazione da parte degli intermediari su alcune asset classes,
  • calibrazione dell’NSFR.

Entro la fine dell’anno si completerà il processo di definizione dell’NSFR, che entrerà in vigore nel 2018. L’LCR verrà invece introdotto dal 1° gennaio 2015 con una soglia minima richiesta del 60%, che verrà innalzata del 10% annuo fino a raggiungere il 100%.

1.      Motivazioni e definizioni

Durante la prima fase della crisi finanziaria cominciata nel 2007 molte banche, sebbene avessero adeguati livelli patrimoniali, hanno riscontrato delle difficoltà nella gestione della propria posizione di liquidità. Ad esempio, sono stati frequenti i casi di fire sales (vendite di asset a prezzi estremamente scontati) per soddisfare un bisogno imminente di liquidità. Non sono mancati esempi di bank runs sia da parte di depositanti (Northern Rock) che di investitori istituzionali (Bear Stearns). La crisi ha evidenziato l’importanza di una corretta gestione della liquidità da parte degli intermediari finanziari al fine di garantire la loro solidità e la stabilità finanziaria a livello di sistema. Per questo motivo il Comitato di Basilea nel 2008 ha pubblicato, come schema per la regolamentazione dei principi di liquidità, il documento “Principles for Sound Liquidity Risk Management and Supervision (“Sound Principles”)”, a seguito del quale sono stati sviluppati due standard minimi.

Il primo è il Liquidity Coverage Ratio (LCR) che ha come obiettivo il rafforzamento della resilienza a breve termine del profilo di liquidità della banca. L’obiettivo è quello di assicurare che la banca abbia sufficienti assets altamente liquidi al fine di fronteggiare gli impegni dal lato delle uscite in uno scenario di stress su un orizzonte temporale di un mese. La versione definitiva dell’indicatore è stata pubblicata a Gennaio 2013. L’LCR si rifà alle metodologie tradizionali di “indice di copertura” della liquidità utilizzate internamente dalle banche per valutare l’esposizione a eventi aleatori di liquidità, e viene calcolato come rapporto tra lo stock dei cosiddetti HQLA (High Quality Liquid Assets) – composti da contanti e attività che possano essere convertite in contanti con una perdita modesta o nulla – e il totale dei deflussi di cassa netti (deflussi di cassa attesi al netto degli afflussi di cassa attesi nell’arco di 30 giorni) in uno scenario di stress, che considera eventi quali prelievi dai depositi al dettaglio, aumento delle volatilità del mercato e deflussi contrattuali. Per essere classificato come HQLA, un asset deve essere facilmente liquidabile sul mercato anche in periodi di tensione e deve essere possibile utilizzarlo come collaterale presso la banca centrale. Deve inoltre presentare un’elevata affidabilità creditizia (bassissimo rischio di default) con una bassa volatilità e una scarsa correlazione rispetto alle attività rischiose come le obbligazioni bancarie.

Il totale dei deflussi di cassa attesi è determinato moltiplicando i saldi delle varie tipologie di passività/raccolta e “impegni fuori bilancio” per dei moltiplicatori che dovrebbero descrivere il saggio di prelievo. Il totale degli afflussi di cassa attesi è ottenuto moltiplicando i saldi delle diverse tipologie di crediti/impieghi per i relativi moltiplicatori ai quali ci si attende che essi affluiscano. Il totale degli afflussi di cassa è soggetto ad un massimale aggregato pari al 75% dei deflussi di cassa attesi.

Il requisito prevede che il valore del rapporto non sia inferiore al 100%.

Il secondo indice è il Net Stable Funding Ratio (NSFR), che punta a rafforzare invece la resilienza su un più lungo orizzonte temporale (un anno). L’NSFR è definito come il rapporto tra l’ammontare disponibile di provvista stabile (Available Amount of Stable Funding, ASF) e l’ammontare obbligatorio di provvista stabile (Required Amount of Stable Funding, RSF). Anche qui, il requisito imposto è che tale rapporto sia maggiore del 100%. L’orizzonte temporale considerato per valutare la provvista stabile è di un anno:

Per provvista stabile si intendono “i tipi e gli importi di capitale di rischio e di debito che si ritiene costituiscano fonti affidabili di fondi su un orizzonte temporale di un anno in condizioni di stress prolungato”. L’ammontare disponibile (ASF) di tale provvista è quella parte di patrimonio e di passività che è ritenuta essere ‘‘affidabile’’ entro l’anno: capitale, azioni privilegiate con scadenza uguale o superiore all’anno, passività con scadenza pari o superiore l’anno; la porzione dei depositi a vista fonte di funding per un periodo di tempo esteso, la quota di funding wholesale per un periodo di tempo esteso.

L’ammontare obbligatorio (RSF) è invece l’ammontare di provvista richiesto all’intermediario. Tale ammontare è calcolato in funzione di alcune caratteristiche delle attività detenute e delle esposizioni fuori bilancio, quali ad esempio la vita residua o altre caratteristiche di liquidità. Esso è composto dagli investimenti in “attività meno liquide” che approssimano la necessità di funding stabile, quali azioni e obbligazioni, prestiti, immobili, partecipazioni e operazioni fuori bilancio. I valori contabili a bilancio vengono attribuiti a una delle categorie stabilite dal documento del Comitato di Basilea, a cui sono associati dei fattori di haircut per l’ASF e per il RSF, coefficienti di ponderazione che vengono applicati alle rispettive voci. Le due somme ponderate di tali valori vanno a costituire rispettivamente il numeratore e il denominatore dell’NSFR.

2.      Criticità e benefici

Tra le problematiche riguardanti gli indicatori di liquidità introdotti dal Comitato di Basilea ci sono alcune questioni aperte sulla calibrazione dell’NSFR. Rispetto alla definizione iniziale sono stati aggiustati alcuni fattori di haircut della provvista stabile (ASF) e richiesta (RSF) per rispondere a una triplice esigenza: un maggiore allineamento con l’LCR, maggiore attenzione alla provvista a breve termine (con fonti di finanziamento più volatili), riduzione del cliff effect (rischio derivante da variazioni improvvise) nella misurazione della stabilità dei finanziamenti. Le principali modifiche dei fattori ASF e RSF sono esposte nel paragrafo 4.

Uno dei punti critici principali dell’NSFR riguarda il fatto che l’attuazione di tale indicatore potrebbe portare a distorsioni con un impatto negativo circa il ruolo tradizionale svolto dalle banche in merito alla trasformazione delle scadenze. L’attività bancaria trae profitto da investimenti a medio-lungo termine a fronte di una raccolta a breve termine che solitamente avviene ad un tasso contenuto; così facendo gli intermediari svolgono un ruolo positivo per l’economia facendo ‘‘incontrare’’ i risparmiatori, che desiderano detenere attività a breve termine, e le imprese che invece hanno bisogno di finanziarsi a medio-lungo termine. L’NSFR rischia di impattare pesantemente questo modello in quanto il rapporto punta ad allineare le scadenze e a coprire investimenti a medio-lungo termine con finanziamenti di pari durata che risultano essere più costosi rispetto al funding a breve. Come conseguenza dell’introduzione di tale indicatore, potremmo osservare una diminuzione dei prestiti erogati dalle banche, che verrebbero sostituiti con investimenti finanziari più sicuri. Il NSFR potrebbe dunque portare ad una disintermediazione bancaria con le imprese che dovrebbero finanziarsi direttamente sui mercati, o tramite altri canali quali il sistema bancario ombra (shadow banking) e le cartolarizzazioni ([9]).

Un altro punto critico in merito alla definizione dell’NSFR riguarda il comportamento di investitori e risparmiatori in condizioni di stress di liquidità. Si pensi ad esempio ai depositi, con il rischio di corse agli sportelli, o ad asset classes in cui potrebbero esserci vendite o acquisti in massa, a discapito di altre. Sembra quindi difficile determinare quali voci di bilancio possano essere considerate come “stabili” o “instabili”, e costituire quindi la provvista stabile con cui calcolare l’NSFR. Ancora più complicata è la calibrazione di fattori di haircut che dovrebbero tenere conto di tali comportamenti. [8] giungono addirittura a dubitare dell’efficacia dell’introduzione di requisiti di liquidità, quali LCR e NSFR, per quelle banche che hanno dimostrato in passato di non avere problemi di insolvenza e di capitale.

Essendo stato sviluppato prima dell’NSFR e più volte rivisto, non si registrano particolari criticità per quanto riguarda l’LCR se non il timore per gli effetti che deriverebbero dalla (indotta) concentrazione in particolari asset classes da parte dei principali gruppi bancari. Si potrebbe innescare un meccanismo di “corsa ai titoli più liquidi” (quelli con fattori di penalizzazione minori), con annessa diminuzione dei loro rendimenti e loro immobilizzazione nei portafogli bancari al fine di soddisfare i vincoli di liquidità richiesti. D’altro canto le banche, alla ricerca di rendimenti elevati, sarebbero portate ad operare in modo più aggressivo sulle asset classes non vincolate al soddisfacimento degli indicatori. Questo potrebbe portare all’assunzione di rischi eccessivi. La segmentazione dei titoli ai fini regolamentari porta con sé distorsioni nel mercato finanziario che debbono essere valutate con attenzione: diminuzione dei rendimenti dei titoli liquidi, aumento di rendimenti dei titoli meno liquidi. Questa considerazione si applica anche al NSFR.

Secondo gli studi di Banca d’Italia, la maggior parte delle banche italiane (tra cui le prime cinque) non avranno problemi a soddisfare gli standard richiesti da Basilea III sul fronte della liquidità, avendo ottenuto, a Giugno 2012, un LCR medio superiore al 140% e un NSFR superiore al 100%. Per maggiori dettagli si rimanda a “Looking ahead to Basel III: Italian banks on the move” ([7]). I risultati di quantitative impact study globale sugli effetti dei nuovi standard di liquidità condotto dal Comitato di Basilea si trovano in “Results of comprehensive quantitative impact study” (Dicembre 2010) ([2]).

3.      Monitoring Report del 6 marzo

Il 6 marzo 2014 il Comitato di Basilea ha pubblicato ([11]) i risultati del monitoraggio di un insieme di banche che hanno fornito i propri dati volontariamente e confidenzialmente ai rispettivi supervisori nazionali. I dati si riferiscono al 30 giugno 2013. Le banche sono state suddivise in due gruppi:

  • Gruppo 1, che raccoglie le 102 banche che mostrano un Tier1 in eccesso di almeno 3 miliardi di euro e sono internazionalmente attive
  • Gruppo 2, costituito dalle restanti 124 banche.

Gli LCR medi dei due gruppi risultano essere, rispettivamente, 114% e 132%, comparabili con i valori calcolati a Dicembre 2012, che erano 119% per il Gruppo 1 e 126% per il Gruppo 2. È invece aumentato il numero delle Banche che soddisfa il requisito definitivo dell’LCR (dal 68% di Dicembre 2012 al 72%) e di quelle che soddisfano almeno il requisito minimo del 60% richiesto per il 2015 (dal 90% al 91%).

Nel campione si osserva la seguente composizione degli HQLA: in media, il 51.8% dei titoli è di Livello 1, a rischio zero, mentre il 31.9% è costituito da contanti e da riserve fruibili presso le banche centrali. Il restante 16.3% è costituito da asset di livello 1 ma a rischio non nullo e da titoli di livello 2A (14.3%) e 2B (2%).

Risultati simili sono stati riportati dall’EBA [12] per le banche europee. Qui il Gruppo 1 è costituito da 41 banche, il cui LCR medio è 104% (decresce di un 5% da Dicembre 2012), di queste 24 soddisfano il requisito del 100% e solo una è sotto il requisito del 60%. L’LCR medio del Gruppo 2, costituito da 127 banche, passa dal 127% di Dicembre 2012 al 133%. Tra queste, 88 (69.3%) raggiungono la soglia del 100%, mentre 23 sono ancora sotto la soglia del 60%. Rispettivamente l’86% e il 84% degli HQLA dei due gruppi è costituito da titoli di Livello 1.

4.      Ultime novità e prossimi passi

Il NSFR è stato definito per la prima volta dal Comitato di Basilea nel dicembre 2010 ([1]), con l’intenzione di sottoporlo a un periodo di osservazione per valutarne l’impatto e le eventuali criticità. Nel gennaio 2014 è uscito un nuovo documento del Comitato ([4]), in consultazione fino all’11 aprile 2014, in cui vengono proposte alcune modifiche riguardo soprattutto ai seguenti punti di attenzione: l’impatto sul business retail (attività al dettaglio) delle banche, la richiesta di provvista stabile a fronte di attività e passività a breve termine pareggiate, l’analisi delle fasce di scadenza inferiori a un anno per le attività e passività con scadenza. Rispetto alla definizione iniziale sono stati aggiustati i fattori di haircut di alcune voci della provvista stabile disponibile (ASF) e richiesta (RSF). Per quanto riguarda la provvista stabile disponibile i principali cambiamenti riguardano: ammissibilità dei depositi operativi (fattore ASF aumentato da 0% a 50%), precisazione del trattamento della provvista garantita (fattore ASF 50%), aumento dei fattori ASF (da 90% a 95%) per depositi stabili senza scadenza e a termine, classificazione più dettagliata delle passività con scadenza inferiore a un anno (ad alcune voci di passività con scadenza tra sei mesi e un anno si applica ora un fattore ASF del 50%, invece che lo 0% iniziale). Tra le modifiche della provvista stabile richiesta segnaliamo: maggiore coerenza con le definizioni di HQLA contenute nell’LCR, classificazione più dettagliata e riduzione dei fattori RSF per alcune attività diverse dagli HQLA, aumento dei fattori RSF (da 0% a 50%) per i prestiti interbancari con vita residua tra sei mesi e un anno. Per una visione più completa delle modifiche rimandiamo all’appendice del documento del Comitato di Basilea sull’NSFR ([4]), ricordando che queste sono tuttora sottoposte a consultazione e che non si esclude un successivo cambiamento nella versione definitiva dell’indicatore, attesa entro fine 2014.

L’NSFR entrerà in vigore nel gennaio 2018. Tale indicatore dovrà essere fornito dalle istituzioni bancarie alle rispettive autorità di vigilanza con frequenza trimestrale. L’LCR verrà invece introdotto il 1° gennaio 2015, ma il requisito minimo sarà fissato inizialmente al 60% e innalzato gradualmente ogni anno del 10% fino a raggiungere il 100% il 1° gennaio 2019. Questo approccio progressivo intende assicurare che l’introduzione dell’LCR non arrechi turbamenti di rilievo all’ordinato processo di rafforzamento dei sistemi bancari e al finanziamento corrente dell’economia reale. L’LCR deve essere segnalato alle autorità di vigilanza con cadenza almeno mensile, frequenza che può essere intensificata in particolari periodi di stress.

Nel gennaio 2014 il Comitato di Basilea ([6]) ha analizzato le particolari situazioni di alcuni Stati che non permettono strutturalmente alle banche domestiche di adeguarsi agli standard richiesti dall’LCR. Si tratta di paesi come Australia e Sud Africa le cui giurisdizioni non hanno sufficienti HQLA, avendo un debito sovrano contenuto e poche altre “qualifying securities”. In tali circostanze, e solo in queste, la regolamentazione permette alle banche centrali di fornire linee di liquidità vincolate alle banche domestiche dietro il pagamento di un tasso di interesse. Questo tipo di strumenti (Committed Liquidity Facilities, CLF) rappresenta un’innovazione interessante nel panorama del sistema bancario centrale e pone interessanti questioni, quali ad esempio il loro pricing. Nel paper viene presentato un modello che può essere usato per analizzare gli effetti di questa modifica all’LCR. Sebbene l’introduzione di questi strumenti non sembra essere necessaria se non in Australia, Sud Africa e in pochi altri paesi, è possibile che essi possano essere utilizzati anche in altre situazioni. I CLF potrebbero essere infatti di grande beneficio anche in paesi in cui c’è abbondanza di HQLA in quanto consentono alle banche centrali di porre un upper bound ai costi della regolamentazione della liquidità.

Sempre nel gennaio 2014 il Comitato di Basilea ha dato indicazioni sui criteri che gli organi di vigilanza dovrebbero utilizzare per monitorare l’LCR delle banche. In particolare, tali linee guida permettono di escludere, inserire o spostare un asset dal calcolo dell’HQLA e aumentarne gli scarti di garanzia. Le caratteristiche e i criteri che il paper suggerisce di prendere in considerazione durante il processo di classificazione degli asset sono sia caratteristiche proprie del titolo che del mercato. Vengono inoltre definiti gli approcci che possono essere seguiti dagli organi di vigilanza per definire tali caratteristiche: viene contemplato un approccio storico, un metodo predittivo ed un cosiddetto metodo “checklist”, nel quale i supervisors concepiscono un insieme di criteri che un titolo deve soddisfare per poter essere inserito in una particolare classe all’interno dell’HQLA. In particolare, questi criteri si riassumono in tre macrocategorie: caratteristiche dell’asset (probabilità di default, performance, volatilità), caratteristiche del mercato (grandezza e sede) e liquidità del mercato (profondità, ampiezza e immediacy).

Riferimenti

[1] Basel Committee of Banking Supervision (2010).  Basel III: International framework for liquidity risk measurement, standards and monitoring. (http://www.bis.org/publ/bcbs188.pdf)

[2] Basel Committee of Banking Supervision (2010).  Results of comprehensive quantitative impact study. (https://www.bis.org/publ/bcbs186.pdf)

[3] Basel Committee of Banking Supervision (2013).  The Liquidity Coverage Ratio and liquidity risk monitoring tools. (http://www.bis.org/publ/bcbs238.pdf)

[4] Basel Committee of Banking Supervision (2014).  Basel III: the Net Stable Funding Ratio – consultative document.(http://www.bis.org/publ/bcbs271.pdf)

[5] Basel Committee of Banking Supervision (2014).  Guidance for Supervisors on Market-Based Indicators of Liquidity. (http://www.bis.org/publ/bcbs273.pdf)

[6] Basel Committee of Banking Supervision (2014).  On the economics of committed liquidity facilities. (http://www.bis.org/publ/work439.pdf)

[7] Banca d’Italia (Francesco Cannata, Marco Bevilacqua, Simone Casellina, Luca Serafini e Gianluca Trevisan) (2013). Looking ahead to Basel III: Italian banks on the move. (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef157/QEF_157.pdf)

[8] Adrian Blundell-Wignall and Paul Atkinson (2010).Thinking beyond Basel III: necessary solutions for capital and liquidity. (http://www.oecd.org/finance/financial-markets/45314422.pdf)

[9] Finance & Strategy, The Financial Services blog of Sia Partners (2013).  The Net Stable Funding Ratio: Definition and impacts on the financial sector. (http://en.finance.sia-partners.com/20131204/the-net-stable-funding-ratio-definition-and-impacts-on-the-financial-sector/)

[10] A.Shleifer, R.Vishny (2010). Fire Sales in Finance and Macroeconomics. (http://www.nber.org/papers/w16642.pdf)

[11] Basel Committee of Banking Supervision (2014).  Basel III monitoring report. (http://www.bis.org/publ/bcbs278.pdf)

 [12] European Banking Authority (2014). Basel III monitoring exercise. (http://www.eba.europa.eu/documents/10180/534414/Basel+III+Monitoring+Exercise+Report+%28as+of+30+June+2013%29.pdf)