Dopo i crack di SVB Bank e Credit Suisse, le acque sembrano essersi calmate.
Scampato il pericolo, la tentazione potrebbe essere quella di derubricare le recenti crisi ad episodi senza riflettere sui limiti della regolamentazione. Del resto i fallimenti bancari ci sono sempre stati, sempre ci saranno e, quindi, capire se la regolamentazione sia efficace o meno è molto difficile: anche con la migliore regolamentazione possibile, i fallimenti bancari potrebbero accadere e, del resto, dimostrare che non sarebbero avvenuti grazie a regole diverse non è possibile.
E invece non è così. I recenti eventi, come del resto la crisi del 2008, mostrano che l’assetto che sovraintende al funzionamento delle banche non funziona, l’approccio cosiddetto di Basilea non garantisce la stabilità finanziaria, non solo presenta delle falle, che si è cercato via via di tappare, ma è esso stesso fonte di instabilità. I recenti accadimenti mettono in dubbio la radice stessa della regolamentazione alzando un velo su scenari ed opzioni che potrebbero aprire ad un ridisegno del sistema finanziario così come lo conosciamo. Il punto è rappresentato dalla conciliazione tra ricerca del profitto da parte di intermediari di natura privata e la necessità di una qualche forma di tutela pubblica. Una conciliazione che ad oggi non sembra perseguibile.
Per capire la ragione di questa affermazione c’è bisogno di tornare alla base: perché esistono le banche? Le banche esistono perché colmano il vuoto lasciato dal fallimento del mercato: arrivano dove il mercato non è in grado di arrivare. Io non sarò mai disposto a prestare tutti i miei risparmi al barista sotto casa che vuole ampliare il suo locale. Non lo faccio per più di un motivo: non voglio affidare tutti i miei denari ad una singola impresa, il prestito sarebbe a lungo termine e invece io potrei aver bisogno della liquidità in tempi molto ravvicinati, inoltre non so se il progetto del barista sia profittevole o meno e non so neppure cosa farebbe con i miei soldi dopo che glieli avessi prestati. Per questi motivi le famiglie, che tipicamente hanno un surplus di risparmio, non prestano denari direttamente agli imprenditori salvo casi molto limitati. Questa funzione è svolta dalle banche: noi depositiamo i nostri denari presso una banca, che ci permette di ritirarli alla bisogna e al contempo presta denaro a tanti imprenditori. Così facendo le banche fanno incontrare chi ha bisogno di denaro con chi ha un surplus di risorse.
La regolamentazione bancaria così come la conosciamo oggi viene da lontano, è datata almeno quaranta anni fa. Una impostazione che fa il paio con la privatizzazione delle banche, un’ondata che ha investito quasi tutti i paesi sviluppati. Le banche hanno come scopo la massimizzazione del profitto ma al contempo colmano un vuoto lasciato dal mercato e così facendo svolgono una funzione sociale: fanno affluire denaro al sistema economico.
A salvaguardia dell’interesse pubblico si pongono due baluardi: la vigilanza bancaria e una forma di sussidio rappresentato dalla garanzia dei depositi fino a 100.000 euro (250.000 dollari negli Stati Uniti). Un sussidio che, se di limitate dimensioni, ha natura privata (ad esempio tramite il Fondo interbancario in Italia), nel caso di dimensioni significative il pubblico è chiamato in causa vuoi tramite una linea di assistenza straordinaria della banca centrale o i soldi del contribuente.
Il punto è capire se questi due baluardi siano efficaci o meno.
Il primo si fonda su quello che si chiama la vigilanza prudenziale che in buona sostanza si riduce al fatto che ogni banca può fare quello che vuole, può assumere i rischi che vuole a condizione che li sappia valutare correttamente e che abbia sufficiente capitale. E’ appunto l’impostazione di Basilea che è incentrata sull’utilizzo di modelli per la valutazione dei rischi che vengono supervisionati dalle autorità di vigilanza. Questo approccio rende di fatto le banche sempre più simili ad altri intermediari (fondi di investimento) con una valorizzazione delle attività finanziarie ai valori di mercato. Il sistema permette loro di operare a leva con una dimensione del bilancio pari a venti volte il capitale. Solo così le banche sono in grado di raggiungere un livello di redditività che è capace di incontrare i desiderata degli investitori. Questo equilibrio è insostenibile in quanto espone le banche alle bizze del mercato, come è successo nel caso di un brusco rialzo dei tassi per SVB bank che ha portato a perdite superiori al capitale, e permette alle stesse di effettuare operazioni molto rischiose navigando nelle maglie della regolazione, come è successo nel caso delle cartolarizzazioni dei mutui subprime e di Credit Suisse.
Il punto è che i rischi sono difficili da valutare e che le banche hanno una leva eccessiva e hanno una struttura di bilancio che può essere fonte di instabilità. Con la crisi del 2008 ce ne siamo accorti e siamo corsi ai ripari inasprendo le regole per la valutazione dei rischi e introducendo tre ulteriori ratio (leva, liquidità, trasformazione delle scadenze) che teoricamente dovrebbero essere all’attenzione dell’autorità di vigilanza. La realtà è che questi indicatori non mordono. C’è stata sì una diminuzione della leva finanziaria ma questa non è stata significativa e la possibilità di sfruttare imperfezioni del mercato per assumere rischi eccessivi è ancora alla portata delle banche.
Non meglio se la passa il sussidio sotto forma di garanzia dei depositi. Le recenti crisi hanno mostrato che il limite sulla garanzia non regge. L’argomento per la sua introduzione era che un depositante sopra una certa soglia sarebbe in grado di valutare la solidità dell’intermediario e quindi è bene che paghi. La storia di SVB Bank e di Credit Suisse ci dice che chi deposita una grossa cifra in banca ha il coltello della parte del manico in quanto potrebbe innescare una crisi di liquidità di natura sistemica. Di fronte a questa minaccia, le banche centrali (e all’occorrenza gli stati) debbono aprire i cordoni della borsa. Qualcosa di simile era già successo in occasione del bail-in del Monte dei Paschi con il rimborso delle obbligazioni subordinate in possesso dei piccoli risparmiatori. Il meccanismo del bail-in messo a punto in sede Europea, che è stato applicato nel caso del Banco Popular, prevede di far pagare il conto di un fallimento bancario agli azionisti e agli obbligazionisti puntando ancora una volta – in una logica di mercato – sulla loro responsabilità. Il meccanismo vale sulla carta, dubito che sarebbe in grado di reggere l’urto anche solo della crisi di un istituto di credito di medie dimensioni.
Dobbiamo prendere atto che, allo stato attuale, l’intervento pubblico in un modo o nell’altro è cruciale per gestire una crisi bancaria. Questo ci porta a domandarci se l’assetto di regolamentazione funzioni o meno. Da qui ad invocare una nazionalizzazione delle banche ce ne passa. Non occorre più regolamentazione, occorre più capitale, banche più piccole e vincoli più forti alla loro operatività. Questo potrebbe comportare una minore redditività e un ridimensionamento del loro ruolo. Questo è lo scenario che potrebbe aprirsi. L’aspetto positivo è che, a differenza di un tempo, ci sono altri attori di mercato pronti a colmare questo vuoto: fondi di direct lending, prestatori di servizi di pagamento, compagnie di assicurazioni, credito al consumo, crowd funding. A fronte degli attuali giganti bancari, assisteremmo ad una frammentazione dell’attività bancaria che verrebbe svolta da un pluralità di attori. Un cambio di scenario che potrebbe portare qualcosa di buono sul fronte della stabilità finanziaria.