IVASS: pubblicati chiarimenti applicativi sul calcolo delle riserve tecniche

Feb 24 2017

L’IVASS ha rilasciato una nota di chiarimento riguardante le disposizioni per il calcolo della Riserva premi ai sensi del nuovo regime Solvency II. In particolare, i chiarimenti hanno ad oggetto le modalità di calcolo della Riserva premi come definite nella semplificazione di cui all’Allegato 6 al Regolamento IVASS n. 18 del 15 marzo 2016.

Comunicazione IVASS
Regolamento IVASS n. 18 del 15 marzo 2016

Comunicazione Banca d’Italia sul nuovo regime di segnalazione delle esposizioni in sofferenza

Feb 24 2017

La Banca d’Italia ha fornito alcune precisazioni riguardanti la nuova modalità di rilevazione statistica delle esposizioni in sofferenza introdotta con Comunicazione del 29 marzo 2016. In particolare, la Comunicazione introduce le versioni riviste delle istruzioni per la compilazione e della documentazione tecnico-operativa per la trasmissione dei dati (schemi segnaletici e sistema delle codifiche).

Le modifiche sono volte a chiarire alcuni quesiti interpretativi trasmessi dagli intermediari a seguito delle prime due segnalazioni e a incorporare i chiarimenti già forniti con comunicazioni del 26 maggio e del 18 luglio 2016.

Comunicazione Banca d’Italia

Nuovi aggiornamenti delle Q&A EIOPA

Feb 24 2017

L’Autorità Europea di vigilanza del mercato assicurativo (EIOPA) ha pubblicato nuovi aggiornamenti ai documenti Q&A (Questions and Answers) pubblicati sul proprio sito istituzionale. In particolare, gli aggiornamenti riguardano:

– modalità di comunicazione delle informazioni alle autorità di vigilanza;

–  procedure di reporting finanziario e di solvibilità;

– Linee guida sulla capacità di assorbimento di perdite delle riserve tecniche e delle imposte differite

Sezione Q&A sito EIOPA

Bad bank europea: buona l’idea, ma il diavolo sta nei dettagli
di Carlo Milani

Feb 16 2017
Bad bank europea: buona l’idea, ma il diavolo sta nei dettagli  di Carlo Milani

Recentemente Andrea Enria, presidente dell’European Banking Authority (EBA), ha avanzato l’ipotesi di introdurre una società di asset management (AMC) europea specializzata nella gestione dei crediti dubbi. In altri termini, ha proposto la costituzione di una bad bank europea. Il tema non è nuovo ed è stato sollevato molte volte nel dibattito (si veda Barucci e Milani, 2014, con riferimento all’Italia; Avgouleas e Goodhart, 2016, sul tema della bad bank europea).

La questione dell’eccesso di crediti inevasi all’interno dei bilanci bancari è particolarmente sentita per le dimensioni che ha assunto a livello europeo. Nel complesso sono oltre mille miliardi di euro i crediti insoluti (NPL) nell’Unione Europea a 28 paesi. L’Italia è il paese che ha la quota di più elevata: i 276 miliardi di euro di crediti deteriorati italiani rappresentano un quarto di tutto il mercato europeo (grafico 1). Seguono ben più distanziate la Francia (14%), la Spagna (13%) e la Grecia (11%). In Germania i crediti insoluti si fermano a poco meno di 70 miliardi di euro (6% del totale).

In termini di incidenza degli NPL sul totale dei finanziamenti si osserva che in diversi paesi europei il problema è rilevante. In particolare, Cipro, Grecia e Portogallo sono i paesi che evidenziano il peso dei crediti dubbi più alto (grafico 2). L’Italia, in questa non invidiabile classifica, si posiziona al quinto posto subito dopo la Slovenia.

Caratteristiche della bad bank proposta da Enria

La proposta avanzata da Enria, da quello che si apprende dalle informazioni diffuse dalla stampa, prevede la cessione dei crediti dubbi all’AMC. Per evitare però che le banche debbano immediatamente sobbarcarsi le perdite derivanti dalla differenza tra il prezzo di mercato assegnato alle sofferenze bancarie (pari mediamente al 20% in Italia) e il valore iscritto in bilancio (40% circa per le banche italiane)  bisognerebbe prestare particolare attenzione al prezzo di trasferimento. Quest’ultimo andrebbe fissato dall’AMC guardando al reale valore economico del credito dubbio. L’AMC dovrebbe soprattutto limitare il suo rendimento atteso rispetto a quello generalmente richiesto dai fondi d’investimento specializzati in questo settore. In questa stessa direzione vanno le condizioni di operatività imposte al Fondo Atlante (si veda Barucci e Milani, 2016).

L’AMC avrebbe quindi tre anni per tentare di recuperare il reale valore economico del credito e qualora non riuscisse in questo obiettivo la perdita sarebbe riversata sulla banca titolare del finanziamento (in altri termini la cessione sarebbe pro-solvendo). Nel caso in cui le perdite fossero ingenti, tanto da richiedere l’iniezione di capitali freschi, potrebbe essere attivata una ricapitalizzazione precauzionale. In tale evenienza sarebbe possibile l’intervento da parte dello Stato, così come ad esempio osservato nel caso di MPS, senza dover applicare la clausola del bail-in. Azionisti e obbligazionisti subordinati dovrebbero però partecipare, almeno in parte, alle perdite (cosiddetto burden sharing).

I capitali necessari all’AMC per operare dovrebbero essere messi a disposizione sia del settore del pubblico che da quello privato. Per il meccanismo descritto in precedenza, comunque, l’AMC non potrà sostenere perdite e quindi le risorse pubbliche non verranno messe a rischio. Inoltre, parte della liquidità potrebbe essere ottenuta da emissioni obbligazionarie, così come suggerito da Klaus Regling, direttore generale del fondo salva Stati ESM.

I limiti della proposta

La proposta avanzata da Enria ha alcuni aspetti interessanti. Dare del tempo all’AMC per recuperare i crediti insoluti, dando così fiato alle banche più in difficoltà nella gestione del portafoglio crediti ed evitando aggiustamenti pro-ciclici, va vista senz’altro con favore. Il periodo di operatività ipotizzata, appena tre anni, appare però troppo breve. La giustizia e la burocrazia, italiana in particolare ma non solo, richiede tempi molto più lunghi prima di poter procedere, ad esempio, all’escussione di una garanzia. Le modifiche normative introdotte recentemente in Italia aiuteranno nel ridurre la tempistica futura ma poco posso sullo stock esistente dei mancati pagamenti.

Altro problema è legato alla derecognition dei crediti: la banca sarebbe infatti sempre responsabile del loro buon recupero, per cui non potrebbe beneficiare della riduzione di assorbimento di capitale ottenibile nel caso di cessione pro-soluto. Alla luce dello IAS 39 il trasferimento dei finanziamenti deteriorati non eliminerebbe infatti il rischio di credito sottostante, che quindi resterebbe conteggiato nel calcolo dei risk-weighted assets (RWA).

Questi due aspetti limitano notevolmente l’incentivo per una banca nel cedere i suoi crediti dubbi all’AMC. Probabilmente si guadagnerebbero solo tre anni di tempo dopodiché le conseguenze sull’azionariato potrebbero essere particolarmente forti. Per quelle banche che adottano un modello IRB, inoltre, vedersi tornare indietro dei crediti il cui valore di recupero non supera il 20% vorrebbe dire dover necessariamente rivedere le valutazione prospettiche anche sui crediti in bonis, con l’ulteriore carico di svalutazioni che ne seguirebbe.

Quali possibili correttivi?

Alcuni emendamenti alla proposta originaria di Enria potrebbero rendere la bad bank europea più efficace.

Ripercorrendo lo schema adottato in Germania (si veda Milani, 2015), l’AMC potrebbe acquistare i crediti in sofferenza al prezzo iscritto in bilancio, eventualmente applicando un haircut di dimensioni contenute. In cambio la banca riceverebbe un’obbligazione emessa dalla stessa AMC ma garantita dallo Stato. Tali obbligazioni dovrebbero essere prive di scadenza e verrebbero interamente rimborsate solo quando la società veicolo avrà recuperato per intero il valore dei titoli ricevuti in gestione, eventualmente reinvestendo le somme recuperate in altre attività finanziarie.

La banca quindi sostituirebbe in bilancio una sofferenza con un bond garantito dallo Stato, che tra l’altro potrebbe essere usato per ottenere liquidità dalla BCE. Stante queste caratteristiche dell’operazione sarebbe possibile applicare la derecognition del credito, con il conseguente risparmio in termini di assorbimento di capitale.

Per evitare che la Commissione Europea possa invocare un illecito aiuto da parte dello Stato la garanzia sarebbe a titolo oneroso. In aggiunta, e ipotizzando che il recupero del valore di cessione delle sofferenze avvenga in un lasso di tempo molto lungo (anche 20 anni), gli istituti di credito dovrebbero accantonare riserve attingendo esclusivamente dagli utili non distribuiti.

L’adesione al meccanismo dovrebbe essere volontaria, anche se BCE e autorità di vigilanza nazionali dovrebbe fare opera di moral suasion per indurre un’ampia adesione di istituti di credito sotto la minaccia di imporre accantonamenti più rapidi in caso contrario.

Se con questi correttivi la bad bank europea potrebbe essere tecnicamente più efficace, il problema della sua implementazione è essenzialmente politico. Come descritto in precedenza, la questione delle sofferenze si concentrata soprattutto in alcune nazioni, come l’Italia, mentre è meno sentita in altre realtà (Germania in primis). Per superare questo contrasto di posizioni il meccanismo di acquisto potrebbe essere ampliato anche agli asset level 3, quelli la cui valutazione di mercato è più incerta e che risultano essere più diffusi nei paesi del nord Europa (Barucci, Baviera, Milani, 2014).

Bibliografia

  • Avgouleas E., Goodhart C., 2016, “An Anatomy of Bank Bail-ins. Why the Eurozone Needs a Fiscal Backstop for the Banking Sector”, European Economy 2016.2.
  • Barucci E., Milani C., Una proposta per la bad bank di sistema, nelMerito.com del 24 febbraio 2014.
  • Barucci E., Milani C., Finalmente il fondo Atlante: sarà piccolo ma è pur sempre una bad bank, FinRiskAlert.it del 20 aprile 2016.
  • Barucci E. , Baviera R., Milani C. (2014) Is the Comprehensive Assessment really comprehensive?, http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2541043
  • Milani C., Come l’esperienza tedesca può aiutare il varo della bad bank, FinRiskAlert.it del 18 settembre 2015

Pubblicata valutazione ESMA sull’utilizzo delle reti DLT nel settore finanziario

Feb 16 2017

L’ESMA ha pubblicato un rapporto sulla tecnologia DLT (Distributed Ledger Technology) e sulle implicazioni del suo utilizzo in ambito finanziario. Il documento illustra il punto di vista dell’ESMA in relazione a: i) possibili applicazioni, ii) vantaggi, iii) rischi e iv) integrazione con la normativa UE esistente.

L’ESMA ritiene che la tecnologia DLT possa determinare una serie di benefici per i mercati finanziari, quali una maggiore efficienza dei servizi di post-trading, capacità di reportistica avanzate e riduzione dei costi.

Secondo l’ESMA, le prime applicazioni DLT si concentreranno sull’ottimizzazione dei processi esistenti all’interno dell’attuale struttura di mercato, con un iniziale interessamento di mercati per lo più non regolamentati e caratterizzati da bassi volumi di attività.

Allo stesso tempo, l’Autorità di vigilanza europea evidenzia alcune importanti sfide in termini di interoperabilità, governance, privacy e creazione di rischio, le quali richiedono ulteriori analisi prima di un qualsiasi utilizzo su larga scala della tecnologia DLT in ambito finanziario.

Dal punto di vista regolamentare, l’ESMA sottolinea che lo sviluppo di una nuova tecnologia, quale le reti DLT, non può esimere gli utenti dal rispettare il quadro normativo vigente, che prevede importanti garanzie per assicurare la stabilità e il corretto funzionamento dei mercati finanziari. In tale contesto è opinione dell’ESMA che (come evidenziato dalle risposte alla consultazione lanciata nel mese di giugno 2016) l’attuale quadro normativo europeo non rappresenti un ostacolo per l’utilizzo della tecnologia DLT nel breve termine.

Nel frattempo, una serie di concetti o principi di natura tecnica, quali, la certezza giuridica collegata alla trascrizione sul registro condiviso o il carattere definitivo del regolamento, potrebbero richiedere degli chiarimenti in seguito allo sviluppo della tecnologia. Inoltre, l’ESMA sottolinea che al di là della regolazione finanziaria, questioni legali più ampie quali il diritto contrattuale, diritto fallimentare e diritto della concorrenza, possono avere un impatto sulla diffusione di DLT.

Secondo l’ESMA, alla luce dell’attuale fase di sviluppo iniziale della tecnologia, una valutazione complessiva dei potenziali cambiamenti apportati e della risposta normativa adeguata risulterebbe prematura.

L’ESMA continuerà a seguire da vicino gli sviluppi del mercato DLT per valutare l’opportunità di formulare un intervento normativo in risposta agli sviluppi della tecnologia. Nel frattempo, le autorità di regolamentazione devono impegnarsi attivamente con gli operatori del mercato al fine di garantire sia che la tecnologia non crei rischi non intenzionali e che i suoi benefici non vengano limitati da ostacoli ingiustificati.

Comunicato stampa
Report ESMA su applicazione reti DLT in ambito finanziario

Consultazione delle ESA in materia di PRIIPs aventi finalità sociali e ambientali

Feb 16 2017

Le autorità di vigilanza europee (ESA) hanno avviato una consultazione congiunta riguardante la proposta di un quadro di riferimento in tema di requisiti patrimoniali minimi per i produttori di PRIIPS aventi finalità di carattere sociale o ambientale (detti anche PRIIPS EOS).

Il produttore di un PRIIP EOS è tenuto, infatti, a dotarsi di misure di governance specifiche per garantire che gli obiettivi ambientali o sociali siano soddisfatte su base continuativa e devono essere in grado di dimostrare la rilevanza di questi obiettivi per gli investitori al dettaglio in tutto il processo di investimento.

Il documento di consultazione, formulato in risposta alla richiesta da parte della Commissione europea, fornisce un’analisi del quadro giuridico per la sorveglianza dei prodotti e delle regole di governance, nonché delle eventuali lacune e criticità riscontrate nel piano normativo.

La consultazione avrà termine il 23 marzo 2017.

Comunicato stampa
Documento di consultazione

CRR: disposizioni finali EBA sull’esclusione delle controparti non finanziarie con sede in un paese terzo ai fini del calcolo del requisito patrimoniale per il rischio di CVA

Feb 16 2017

L’EBA ha pubblicato la versione definitiva delle disposizioni tecniche per l’esclusione delle operazioni con controparti non finanziarie (NFC) con sede in un paese terzo dal requisito patrimoniale in tema di rischio di CVA (Credit Valuation Adjustment), ai sensi del Regolamento CRR (Capital Requirements Regulation).

L’obiettivo delle nuove disposizioni è quello di allineare il trattamento delle NFC con sede in un paese terzo con il trattamento delle NFC europee, come raccomandato già nel febbraio 2015 dall’EBA stessa. Tuttavia, dato che le NFC non europee non sono direttamente soggette alla regolamentazione UE, le nuove norme chiariscono che spetta alle istituzioni interessate verificare che una controparte con sede in un paese terzo, si qualifica come NFC e, in tal caso, che siano rispettate le soglie di clearing introdotte dalla normativa EMIR.

Comunicato stampa
Versione finale RTS EBA

Aggiornata la nota di chiarimenti sulla circolare di Banca d’Italia in materia di controlli interni, sistema informativo e continuità operativa

Feb 16 2017

La Banca d’Italia ha aggiornato la nota di chiarimenti in merito all’applicazione della disciplina in materia di sistema dei controlli interni, sistema informativo e continuità operativa delle banche e dei gruppi bancari, contenuta nella Circolare n. 285 del 19 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo IV, Capitoli 3, 4 e 5.

Nota di chiarimenti
Circolare n. 285 del 19 dicembre 2013 (aggiornata al 2 novembre 2016)

ESMA: pubblicati i programmi 2017 in materia di convergenza dell’attività di vigilanza e di valutazione del rischio

Feb 16 2017

L’ESMA ha pubblicato il “2017 Supervisory Convergence Work Programme”. Il documento delinea le attività e le mansioni che l’ESMA svolgerà nel 2016 per promuovere una vigilanza efficace ed armonizzata all’interno dell’Unione Europea. L’Autorità Europea ha individuato le seguenti priorità su cui concentrare il lavoro di convergenza:

  • attuazione della direttiva MiFID II / MiFIR e MAR, con particolare attenzione agli aspetti informatici;
  • miglioramento della qualità dei dati raccolti dalle autorità nazionali;
  • protezione degli investitori nel contesto della prestazione transfrontaliera di servizi;
  • convergenza nella supervisione delle controparti centrali all’interno dell’Unione europea.

Queste priorità sono state sviluppate tenendo conto di diversi fattori, tra cui il contesto di mercato, novità legislative e regolamentari, e le priorità di vigilanza garanti della concorrenza.

Parallelamente, l’ESMA ha pubblicato il documento “2017 Risk Assessment Work Programme” che fornisce una panoramica delle analisi e delle attività statistiche programmate da parte dell’ESMA per un’attenta valutazione dei rischi sui mercati finanziari europei. Tra gli obiettivi principali rientrano:

  • completamento dell’infrastruttura tecnica necessaria per l’elaborazione dei dati nel quadro dei mandati AIFMD, MiFID e EMIR;
  • rafforzamento delle capacità di monitoraggio dei rischi dell’ESMA, tramite la formulazione di statistiche descrittive del mercato, nonché di indicatori di rischio sofisticati e metriche basate sui nuovi dati proprietari;
  • svolgimento di attività di ricerca approfondita su temi (quali liquidità, fund leverage e l’impatto dell’innovazione nelle aree di infrastrutture di mercato e di consulenza per gli investimenti) ritenuti di importanza strategica;
  • rafforzamento dell’attività di valutazione dei rischi e ulteriore miglioramento del lavoro in tema di stress test, al fine di definire esercizi di stress test sempre più sofisticati sulle controparti centrali europee e sviluppare l’impianto di stress test sui fondi di investimento.

ESMA 2017 Supervisory Convergence Work Programme
ESMA 2017 Risk Assessment Work Programme

L’Italia è terra di conquista? Perché mancano i manager
di Emilio Barucci

Feb 03 2017
L’Italia è terra di conquista? Perché mancano i manager  di Emilio Barucci

Articolo pubblicato su Avvenire in data 1 febbraio 2017

Il Made in Italy è vitale, in crisi è la classe dirigente. Le acquisizioni straniere e le fragilità del sistema.

«Arrivano i francesi e (forse) anche i tedeschi». Potrebbe essere il titolo di un film sugli ultimi anni del capitalismo italiano. I casi recenti sono noti: le Generali nel mirino di Axa e Allianz, l’acquisizione dei fondi comuni di investimento Pioneer da parte della francese Amundi, la fusione tra Luxottica e Essilor che sembra sempre più un’acquisizione posticipata da parte dei francesi, Vivendi che controlla Telecom e insidia l’impero Berlusconi. In realtà ci si sveglia in ritardo: il problema non è nuovo e data almeno all’inizio della crisi finanziaria.

Prima del 2007 le operazioni di fusione/acquisizione tra Francia e Italia erano più o meno equilibrate, da allora abbiamo avuto operazioni di acquisizione dalla Francia all’Italia per 52 miliardi e operazioni di segno opposto per soli 8 miliardi di euro. Negli ultimi dieci anni, aziende francesi in Italia si sono comprate banche (Cariparma e Bnl), il latte di Parmalat, lo zucchero di Eridania, i gioielli di Bulgari e Pomellato, marchi della moda come Loro Piana e Bottega Veneta, pezzi del mondo dell’energia (Edison e Acea) e delle infrastrutture (Grandi Stazioni e Ntv).

Se guardiamo ai fondamentali del nostro Paese le cose non tornano: è vero che l’economia italiana cresce meno di quella francese, e che in particolare abbiamo una minore crescita della produttività, ma possiamo contare comunque su un peso della manifattura rispetto al Pil superiore a quello transalpino e abbiamo un tessuto produttivo capace di esportare, mentre la Francia importa più di quanto esporta. La nostra industria è in difficoltà, ma resta vitale: dopo la crisi finanziaria le aziende presenti sui mercati internazionali hanno continuato a guadagnare quote. Allora perché questo lungo elenco di acquisizioni? Molte ricostruzioni liquidano i mali del capitalismo italiano riducendoli a un binomio: ‘nanismo’ delle imprese e influenza del ‘salotto buono’.

C’è del vero, ma è solo una parte della storia. Il nanismo ha a che vedere con il fatto che in Italia abbiamo un numero assai elevato di aziende di piccola dimensione, molto più che in altri Paesi europei. Questo aspetto può rappresentare un punto debole in quanto l’apertura dei mercati richiede aziende di grandi dimensioni capaci di competere su più fronti. Il capitalismo italiano ha mostrato tutti i suoi limiti nell’accompagnare le aziende nel processo di crescita: modesto ricorso al mercato dei capitali (obbligazionario e azionario), eccessivo ricorso al credito bancario.

Nel glorioso dopoguerra le aziende delle famiglie storiche del capitalismo italiano si sono affacciate alla Borsa, ma i proprietari hanno continuato a tenere ben salda la barra del timone. Per puntellare posizioni sempre più deboli (banalmente non avevano i denari per investire o per ricoprire le perdite), hanno utilizzato tutta una serie di strumenti difensivi (patti di sindacato, scatole cinesi…) che permettevano loro di controllare le aziende anche con una quota molto limitata di azioni. Era il mondo del cosiddetto ‘salotto buono’, che ha retto fino a quando le barriere nazionali sono scomparse. Di fatto dagli anni 90 in poi difendere l’italianità di un’azienda è diventata una missione praticamente impossibile.

Ma facciamo un passo indietro: è giusto difendere l’italianità di un’azienda? La risposta è sì, ma bisogna vedere come farlo. Sì, perché la localizzazione dell’azienda è importante in termini di competenze e di strutture organizzative che costituiscono il nerbo dell’economia di un Paese. Facciamo un esempio: nel comprensorio di Firenze si produce larga parte delle borse di alta gamma al femminile, le maestranze (costituite in buona parte da cinesi) sono ancora eccellenti e quindi tutti i grandi marchi producono nella valle dell’Arno. Quasi tutti questi grandi marchi non sono però basati in Italia, le loro funzioni a più alto valore aggiunto sono allocate a Londra o a Parigi: marketing, ideazione, creatività, logistica, finanza. Questo fa sì che il mondo della moda italiano abbia perso via via competenze ad alto valore aggiunto, organizzazioni complesse e in ultima analisi manager che riversano il loro reddito in altri Paesi, senza contare che i dividendi di queste aziende vanno a beneficio di investitori che solo in piccola parte sono italiani.

Per tale ragione è bene che la ‘testa’ di una impresa rimanga in Italia. Ma per garantire questo risultato si deve essere in gradi di esercitare il controllo sull’azienda. Questo può avvenire in due modi. Tramite un azionista forte, o tramite un management forte. Se si escludono rarissime eccezioni, non abbiamo multinazionali italiane importanti con un azionista forte privato. Lo Stato è ancora in grado di esercitare il controllo su alcune multinazionali, ma il suo raggio di azione si è ridotto per i ben noti vincoli di finanza pubblica. Oramai è chiaro che la stagione del ‘nocciolo duro’ di azionisti riuniti attorno a un patto di sindacato è terminata. Il motivo è semplice: i noccioli duri non funzionano in quanto non si sa davvero chi comanda e al momento del bisogno gli azionisti non tirano fuori le risorse. Rimane il modello public company, in cui un management forte è in grado di governare le aziende avendo la fiducia degli azionisti. In questo caso non conta il blasone, contano soltanto la visione sul futuro e la capacità di remunerare il capitale nel medio-lungo periodo. È qui che il sistema Italia ha fallito. Il processo di crescita di un’azienda doveva passare tramite una separazione virtuosa tra proprietà e controllo che portasse alla nascita di una classe di manager capaci di farsi rispettare dagli azionisti e di garantire loro un ritorno economico adeguato. Il sistema Italia per anni ha invece giocato in difesa con il ‘salotto buono’ e il credito bancario facile. Il primo è scomparso negli anni 90, il secondo con la recente crisi finanziaria.

Sono sostanzialmente queste le ragioni della maggiore vulnerabilità dell’economia italiana post crisi finanziaria, testimoniata dalla valanga di acquisizioni: imprese fortemente indebitate o dall’assetto azionario debole sono state incapaci di giocare un ruolo attivo nei processi di acquisizioni e sono diventate ‘preda’. Per ovviare a questi problemi serve a poco erigere barriere: se lo facciamo le nostre aziende moriranno di asfissia. Serve piuttosto favorire il rafforzamento patrimoniale delle imprese anche tramite incentivi fiscali, favorire lo sviluppo dei mercati e degli investitori istituzionali e, soprattutto, serve un progetto a lungo termine che rafforzi la nostra classe di manager. Il Paese ha ancora un tessuto imprenditoriale vivo con imprenditori che sanno fare il loro mestiere, quello che manca è una classe dirigente capace di guidare il passaggio generazionale di un’azienda e garantirne lo sviluppo. Non è un caso che Del Vecchio porti Luxottica a Parigi e individui nell’amministratore delegato di Essilor il futuro capo azienda e che Generali e Unicredit nel momento del bisogno si siano rivolte a due amministratori delegati francesi. Questi difetti non si risolvono con gli annunci, occorre un progetto a lungo termine e una visione che fino ad ora è mancata alla nostra classe dirigente.