Quando il credito di un paese si ferma… al semaforo
di Roberto Baviera e Davide Lebovitz

Apr 24 2014
Quando il credito di un paese si ferma… al semaforo  <small><small><I> di Roberto Baviera e Davide Lebovitz  </I></small></small>

Come un qualsiasi debitore sa bene, ciò che a volte è rilevante, non è il costo del debito tout-court ma l’avere o meno un accesso al credito. La domanda tabù che sembra essere circolata sul mercato è: un paese come l’Italia può riuscire sempre a collocare il suo debito?

Ricordiamo ai non addetti ai lavori che lo stato italiano ha, in media, circa 200 miliardi di Euro di debito in scadenza ogni anno. Questo debito, come d’altra parte quello di tutti i paesi, viene finanziato con nuovo debito. Un costante accesso al mercato risulta cruciale per poter collocare circa 20 miliardi ogni mese di nuovo debito “semplicemente” in sostituzione del vecchio.

Chiaramente questa domanda può essere riformulata per un qualsiasi paese, ma nel caso di Italia e nell’area Euro della Spagna, viste le dimensioni del loro debito, risulta particolarmente rilevante per comprendere il comportamento del policy maker europeo ed in particolare le unconventional measures attuate dalla Banca Centrale Europea.

Una possibile risposta alla domanda

Nassim Taleb nel suo Dynamic Hedging [1] cita una regola non scritta dei mercati: “The market always tends to flow to simplicity“. Al fine di rispondere a questa domanda ci piacerebbe disporre di un indicatore semplice e diretto – nell’ottica di Taleb – dello stato di turbolenza del mercato per un emittente, cioè di un vero e proprio semaforo:

Rosso:  accesso al mercato bloccato;

Giallo:   accesso limitato e a rischio blocco;

Verde: accesso consentito (nei limiti dati dalla congiuntura…).

Non essendone disponibile uno soddisfacente per questo scopo ne abbiamo costruito uno ex-novo: sfortunatamente anche nel considerare un semplice semaforo, quando lo si vuole costruire si cade necessariamente (almeno un poco) nel tecnico.

L’elemento base è la curva di rendimenti relativi (spread) rispetto ad una curva di tassi d’interesse risk-free ovvero priva di rischio di credito.

Tecnicamente si considera la Curva dell’Asset-Swap-Spread verso OIS (chiamata nel seguito per semplicità: curve) dei titoli governativi di Italia e Spagna. Questa è “moralmente” equivalente al noto spread contro i titoli governativi tedeschi, titoli da cui si ottiene un’altra curva considerata risk-free dal mercato. La curva in questione è più semplice da costruire per la regolarità delle date negli swap OIS; inoltre non presenta il problema dovuto al cambio del titolo benchmark. Lo strumento è anche più generale, dal momento che può essere ottenuto per qualsiasi emittente e non è limitato al mercato delle obbligazioni governative. In Figura 1 viene mostrato ad esempio come appare la curve in una normale giornata di mercato per l’Italia e la Spagna.

Immagine Baviera 1Immagine Baviera 2

Figura 1: curve per il giorno 15 Marzo 2013 per l’Italia (a sinistra) e per la Spagna (a destra)

 

In Figura 1, si osserva che la curve è ben descritta da un gomito, ovvero da una retta spezzata in un punto, chiamato Time-to-Structural-Change (di seguito time), tipicamente collocato entro i 10 anni, i.e. nella zona di maggior liquidità della curva dei governativi. Dopo questo punto la curve risulta essere quasi costante o con una debole pendenza su orizzonti medio lunghi. Inoltre per un emittente governativo, è difficile che il mercato ritenga probabile un default sul brevissimo termine e quindi ci si attende che la curve tenda a valori molto bassi sul breve.

La presenza di un gomito netto è rilevante in un mercato di titoli liquidi come può essere quello dei governativi e rende possibile rappresentare la curve con altri due indicatori oltre allo spread a 10y, classica quantità oramai nota anche l’uomo della strada: il time e la pendenza sul primo tratto prima del gomito (slope). Con questi tre indicatori abbiamo una descrizione semplificata ma completa della curve, che abbiamo riportato in Figura 2.

Immagine Baviera 3

Figura 2: descrizione semplificata della curve e le due tipologie di profitto per un carry-trader

Mentre risulta oramai chiaro a chiunque il significato dello spread, ovvero il costo richiesto dal mercato in più rispetto ad un titolo risk-free per remunerare il rischio assunto nel detenere obbligazioni a 10 anni di quel dato emittente, bisogna spendere qualche parola in più sugli altri due indicatori. A questo fine risulta utile considerare il comportamento di un carry-trader in titoli governativi, tipico investitore in obbligazioni di paesi periferici dell’area Euro. Tale investitore, si immunizza dal rischio tasso d’interesse acquistando il titolo periferico e contemporaneamente sottoscrivendo un asset swap di pari scadenza (ovvero entra in quello che nel gergo è chiamato un asset swap package o semplicemente un package). Inoltre, il carry-trader costruisce la propria strategia d’investimento ragionando in uno scenario di curva di asset swap spread che non si modifica nel tempo. Chiaramente tra tutti i package relativi al paese d’interesse tenderà ad acquistare quello che massimizza la propria strategia d’investimento in un dato intervallo di tempo Immagine Baviera delta T (carry).  In Figura 2 viene mostrato il caso in cui l’investitore entra in un package con scadenza nel punto di structural change (punto A in figura). Se l’investitore detiene il package per un dato lasso di tempo Immagine Baviera delta T 2  (e quindi il package, trascorso Immagine Baviera delta T 3 , ha scadenza residua Immagine Baviera delta T 7  ) ha un duplice guadagno: da una parte si garantisce l’extra rendimento determinato dallo spread in asset swap pari a Immagine Baviera delta T 4 , dall’altro vende il package ad un prezzo maggiore. Infatti, nello scenario descritto, un nuovo package sul mercato garantisce uno spread Immagine Baviera delta T 8  inferiore a Immagine Baviera delta T 9  , e quindi dalla liquidazione del package in suo possesso il carry-trader incassa un prezzo maggiore di quello iniziale per un ammontare Immagine Baviera delta T 5 circa pari a Immagine Baviera delta T 6, cioè la scadenza residua del titolo moltiplicata per il guadagno in termini di spread. Risulta quindi evidente dalla figura che un carry-trader raggiunge il suo obiettivo di massimizzare la strategia d’investimento acquistando titoli con scadenza sul gomito.

Il time diventa quindi da una parte l’orizzonte temporale che è di particolare interesse per un tipico investitore, dall’altra l’orizzonte fino al quale è più semplice per un emittente collocare le proprie obbligazioni grazie alla presenza di una domanda sempre vivace. Infine, risulta utile mediare sul mese il time: ricordiamo che il nostro fine è quello di ottenere un indicatore dell’accesso al mercato non il singolo giorno ma su una finestra di interesse per il policy maker, i.e. il mese.

Prima di analizzare nel dettaglio la situazione forse è utile ricordare i principali market interventions da parte dei policy makers europei, che sono brevemente riassunti in Tabella 1.

Tabella 1: principali market interventions attuati dai policy makers europei

SIGLA

DESCRIZIONE

DATA

AMMONTARE

PROMOTORE

GLF

Prestito alla Grecia Maggio ’10 €110 miliardi

UE e FMI

SMP

Acquisto sul secondario titoli   Stato Maggio ’10, agosto ’11 €210 miliardi

BCE

LTRO

Long Term Repo Dicembre ’11 e feb. ’12 €1052 miliardi

BCE

ESM

Assistenza agli Stati membri Giugno ’12 (come EFSF) €40 miliardi

UE

OMT

Acquisto di titoli di Stato a   breve di Paesi in difficoltà economica Annunciato in luglio ‘12 Senza limiti, inutilizzato

BCE

 

L’ultima indicazione rilevante ci viene dalla slope. Quando diventa più pendente ci segnala che gli investitori richiedono un carry più elevato per remunerare il proprio rischio. Una slope invertita è indice di un blocco nell’accesso al credito: la percezione del mercato è di un emittente che sta per entrare in una ristrutturazione o un default sul debito.

 Qui di seguito vengono riportati i valori dei tre indicatori nel tempo per l’Italia (Figura 3).

Immagine Baviera 4

Figura 3: i tre indicatori considerati per l’Italia, sono state evidenziate le fasce di maggior percezione di difficoltà di collocamento del debito: fallimento Lehman, crisi greca e crisi italiana. Queste fasce sono caratterizzate non solo dall’allargamento dello spread ma anche dalla riduzione del time sotto il valore critico discusso nel testo

In Figura 3 si denotano tre zone principali, in cui il time scende addirittura sotto la soglia dei due anni: ricordiamo che l’anno, ovvero l’arco di tempo coperto da una finanziaria è l’intervallo di credibilità minimo per un paese. Notiamo, confrontando i grafici, che la slope e lo spread a 10y aumentano, con diversa intensità, nelle fasce evidenziate. Queste tre zone designano tre particolari avvenimenti che hanno condizionato l’accesso al credito dello Stato italiano. In un primo tempo il fallimento di Lehman, nel mese di Settembre 2008, ha posto dei dubbi sulla stabilità finanziaria mondiale. Successivamente la crisi greca ha mostrato l’insostenibilità del debito nel maggio 2010; in tale data assistiamo il simultaneo allargamento dello spread e del time sotto i 2 anni. Questa fase di incertezza si protrae fino alla fine dell’anno, con il time che supera i 2 anni solo a febbraio 2011. Il time scende sotto la soglia dei 2 anni nel mese di agosto 2011, di nuovo in concomitanza con l’allargamento dello spread: i policy maker europei decidono prontamente di estendere il programma SMP anche a Italia e Spagna. Osserviamo anche che a seguito dell’inversione della slope a novembre 2011, è stata attivata LTRO: la unconventional measure più rilevante almeno (ma come vedremo, non solo) in termini di volumi coinvolti.

Risultati analoghi a quelli descritti valgono per la Spagna.

Interessante osservare la curve il giorno in cui è avvenuta l’inversione della slope per l’Italia: gli investitori non comprano nuove obbligazioni anzi cercano di liberarsi di quelle in portafoglio percependo come immediata la possibilità del default. Immediatamente dopo l’inversione della slope viene attivata LTRO. Al contrario di quanto emerge da un’analisi condotta solo sullo spread, alla luce di questo studio risulta pienamente comprensibile il timing della misura e se ne evidenzia l’efficacia nello sbloccare l’accesso al mercato per Italia e Spagna.

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 Figura 4: curve delle obbligazioni italiane il 9 Novembre 2011, il giorno in cui è avvenuta l’inversione di pendenza

Il nostro semaforo è presto costituito. Nel caso in cui time diminuisce rapidamente tanto da scendere addirittura sotto 2 anni in concomitanza con l’allargamento dello spread, abbiamo un segnale di primo malessere (Giallo), quando il mercato è invertito con elevata pendenza in valore assoluto il mercato è bloccato per l’emittente (Rosso).

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Figura 5: zone di difficoltà di accesso al credito evidenziate dal semaforo proposto

In Figura 5 viene mostrato il funzionamento del semaforo proposto e viene messo in relazione agli interventi dei policy makers adottati. A parte la prima zona gialla dell’Italia che corrisponde al fallimento di Lehman, si nota che l’ingresso in una zona gialla comporta sempre l’intervento dei policy makers. In particolare l’ingresso nella zona rossa rende necessario l’attuazione di LTRO: la grave situazione di crisi giustifica pienamente la rilevanza della misura adottata.

Il semaforo descritto rientra sicuramente nei desiderata di Taleb – e forse del mercato – per semplicità ed immediatezza; inoltre, dal momento che questo strumento sembra individuare le condizioni di criticità del mercato che hanno determinano l’intervento dei policy makers europei, forse merita (almeno) una rapida occhiata.

[1] N. Taleb, Dynamic Hedging: Managing Vanilla & Exotic Options, Wiley (1997).

Il punto sulle politiche monetarie non convenzionali
di Emilio Barucci, Stefano Corsaro e Carlo Milani

Apr 24 2014
Il punto sulle politiche monetarie non convenzionali     <small><small><I> di Emilio Barucci, Stefano Corsaro e Carlo Milani </I></small></small>

EXECUTIVE SUMMARY

Sull’onda della crisi economico-finanziaria, la BCE e le banche centrali dei maggiori paesi sviluppati hanno implementato politiche monetarie non convenzionali di varia natura: dall’acquisto di titoli all’iniezione di liquidità nel sistema finanziario. La valutazione in merito alla loro efficacia è controversa: da un lato queste misure sembrano avere avuto un effetto sull’andamento di alcune grandezze finanziarie, dall’altro esse non sono state in grado di invertire l’andamento dei principali indicatori economici (almeno in Europa). Tali politiche presentano inoltre delle criticità e delle controindicazioni che non possono essere sottovalutate. Nelle pagine che seguono facciamo il punto sugli effetti delle misure adottate dalle BCE, con un particolare focus sull’Italia, e valutiamo la possibilità che la BCE attui ulteriori iniziative non convenzionali.

SMP E LTRO: COSA E’ STATO FATTO SINO AD ORA

Le politiche monetarie non convenzionali messe in atto (o annunciate) sino ad adesso dalla BCE sono il Securities Markets Programme (SMP), le Longer-Term Refinancing Operations (LTRO) e le Outright Monetary Transactions (OMT). Portate avanti con convinzione in particolar modo dall’attuale presidente Mario Draghi, tali politiche hanno avuto effetti non trascurabili sulle economie europee.

Il SMP prevedeva l’acquisto sui mercati secondari dei titoli di Stato accettati dalla BCE come collaterale nelle operazioni di rifinanziamento: il programma è stato attivato nel maggio 2010 per Grecia, Irlanda e Portogallo ed è stato esteso, nell’agosto 2011, a Spagna ed Italia. Gli ultimi acquisti compiuti sotto l’ombrello del SMP risalgono al settembre 2012; in totale sono stati impiegati 218 miliardi di euro, di cui 103 per l’acquisto di titoli di Stato italiani.

L’impatto del programma sugli spread dei titoli di Stato è stato immediato e significativo: durante il primo giorno di operatività, lo spread tra titoli di Stato greci e tedeschi calò di oltre 400 punti; all’atto della riattivazione nel 2011, gli spread spagnoli e italiani calarono di oltre 100 punti. Anche l’effetto di lungo periodo sui rendimenti è significativo ed è stimato in una diminuzione compresa tra 0,1 e 7 punti base per le obbligazioni a dieci anni per ogni 100 milioni di euro di titoli acquistati (rispettivamente, per Italia e Irlanda) (Ghysels et al., 2014). Simili risultati sono stati riscontrati per le obbligazioni italiane a cinque anni (diminuzione tra 1 e 2 punti base per ogni miliardo di titoli acquistati), per gli altri paesi i valori sono compresi tra i 3 e i 21 punti base. Si stima che circa i tre quarti di tali effetti abbiano natura permanente (Eser et al., 2013). Secondo alcune analisi gli effetti del SMP potrebbero addirittura attestarsi attorno ai 200 punti base sui titoli italiani a 2 e 10 anni (Casiraghi et al., 2013). Gli acquisti della BCE sembrano avere anche ridotto in misura significativa la volatilità delle obbligazioni governative (Ghysels et al., 2014).

Tramite le LTRO, le banche dell’eurozona hanno ottenuto circa 1.000 miliardi di euro dalla BCE ad un tasso dell’1%; un quarto dei fondi è andato alle banche italiane. Le due aste a tre anni, risalenti al dicembre 2011 e al febbraio 2012, hanno immesso nel sistema un ammontare di liquidità aggiuntiva pari a circa 523 miliardi. La possibilità di early repayment della liquidità ottenuta nelle aste a tre anni è stata ampiamente utilizzata soprattutto dalle banche non italiane; solo nei primi tre mesi del 2014 sono stati restituiti fondi per oltre 60 miliardi. A fine 2013, le banche italiane detenevano ancora 232 miliardi di fondi LTRO, con un tasso di restituzione del 15%, contro una media del 39% nell’area euro. Le banche italiane stanno comunque accelerando la restituzione dei fondi (BCE, 2014a; BCE, 2014b; Banca d’Italia, 2013).

Uno degli obiettivi principali del programma era quello di porre rimedio all’impasse che si era venuta a creare nel mercato interbancario a causa della crisi di fiducia reciproca riguardo alla solidità patrimoniale e di liquidità delle controparti. E’ stato stimato che le iniezioni di liquidità delle LTRO abbiano diminuito in modo permanente i tassi di interesse sul mercato interbancario di circa 70-100 punti base. Non c’è invece evidenza riguardo ad un loro effetto significativo sui rendimenti delle obbligazioni governative (Casiraghi et al., 2013).

Buona parte dei fondi che le banche italiane hanno ottenuto nell’ambito delle LTRO è stata utilizzata per comprare titoli di debito pubblico nostrani: tra il dicembre 2011 e il settembre 2013 gli acquisti netti sono stati pari a 150 miliardi di euro, portando il totale di obbligazioni pubbliche detenute a quota 386 miliardi. La quota di attività detenute dagli istituti di credito rappresentata dai titoli di Stato è passata dal 6 al 10%. Oltre l’80% di tali acquisti ha riguardato obbligazioni di durata pari o inferiore a 5 anni; conseguentemente, la durata residua media dei titoli pubblici è calata da 5,8 a 4,3 anni.

Le banche italiane mostrano un calo della raccolta pari al 3% nel periodo settembre 2012 – settembre 2013, soprattutto a causa della restituzione dei fondi della BCE e della diminuzione della raccolta all’ingrosso, che continua a mostrare andamenti altalenanti, principalmente ricollegabili ai tassi sulle obbligazioni governative; la contemporanea diminuzione dei prestiti ha portato ad una diminuzione del funding gap che è risultato essere  al 12,2% nel settembre 2013, in diminuzione di 7 punti rispetto al 2011, su livelli oramai non lontani dalla situazione pre-crisi. In vista dei futuri stress test, le banche italiane si presentano in buone condizioni, sebbene il ruolo dei fondi delle LTRO risulti essere ancora rilevante (Banca d’Italia, 2013; Barucci, Corsaro e Milani, 2014).

I LIMITI DELLE POLITICHE MONETARIE NON CONVENZIONALI

Oltre agli effetti positivi su rendimenti e volatilità, le politiche monetarie non convenzionali della BCE hanno apportato benefici alle economie nazionali dell’eurozona. Per valutare appieno queste operazioni occorre considerare anche alcune criticità del SMP e delle LTRO (nonché dell’ancora inutilizzato OMT) e i problemi ancora aperti.

La crisi economico-finanziaria ha duramente colpito gli investimenti nell’area euro, crollati di oltre il 15% dal picco del primo trimestre del 2008 al terzo trimestre del 2013. Tra marzo e settembre del 2013 si è assistito ad un lieve recupero (0,6%) che dovrebbe rafforzarsi nel prossimo triennio. L’inversione di rotta risulta essere debole a causa di una molteplicità di fattori, tra cui l’elevata incertezza, che incide negativamente sul livello di fiducia, le difficili condizioni di accesso al credito bancario e una domanda persistentemente debole (BCE, 2014a; BCE, 2014b).

I fondi ottenuti nell’alveo delle LTRO sono stati utilizzati dagli istituti italiani principalmente per acquistare titoli di stato nazionali. Non vi è comunque evidenza che l’acquisto di obbligazioni pubbliche sia legato alla diminuzione dei prestiti all’economia: la correlazione tra le due variabili a livello di singolo intermediario è infatti nulla (Banca d’Italia, 2013). La dinamica del credito nell’eurozona rimane debole: mentre i prestiti alle famiglie sono in leggero aumento, quelli a società non finanziarie presentano una diminuzione del 3,1% su base annua. Il dato appare allarmante una volta che si consideri che nell’economia statunitense e britannica è stata riscontrata una correlazione positiva tra la crescita del PIL e i flussi di credito a privati e società non finanziarie (BCE, 2014a; BCE, 2014b).

In Italia, a fine 2013, la diminuzione del credito nei confronti delle imprese non finanziarie risulta essere pari a circa il 6% su base annua, il dato è superiore rispetto al calo dei prestiti concessi alle famiglie (-1%). Le imprese e le famiglie del nostro paese devono inoltre sopportare tassi di interesse più elevati rispetto alla media dell’eurozona; nel corso del 2013, il differenziale tra Italia ed eurozona per le nuove erogazioni di credito è ulteriormente aumentato, attestandosi rispettivamente all’1% e allo 0,6%. (Banca d’Italia, 2013).

L’acquisto di obbligazioni pubbliche e i fondi forniti all’economia tramite le LTRO hanno più che raddoppiato il bilancio della BCE tra il 2007 e il 2013 (nello stesso lasso di tempo, il bilancio della FED è raddoppiato e quello della Banca d’Inghilterra è quadruplicato); tra il 2007 e il 2012, il rapporto tra titoli detenuti dalla BCE e PIL dell’eurozona è aumentato significativamente: da meno del 15% a più del 30%. La ripresa delle quotazioni ha portato benefici ai bilanci degli istituti centrali, ma l’aumento dei tassi di interesse potrebbe portare a perdite in futuro (Santor e Suchanek, 2013).

NUOVE MISURE NON CONVENZIONALI ALL’ORIZZONTE?

Nonostante la minore turbolenza dei mercati finanziari, le criticità dell’attuale congiuntura economica non permettono di escludere la possibilità che la BCE possa ricorrere a misure non convenzionali in futuro: anche a causa della mancanza di politiche fiscali e strutturali, la politica monetaria è chiamata ancora a svolgere un ruolo da supplente. Due sono in particolare i fattori che potrebbero spingere la BCE a promuovere politiche monetarie non convenzionali: il rischio di deflazione e la sopravvalutazione dell’euro.

Lo scenario della deflazione potrebbe non essere lontano. La media dell’inflazione, pari al 2,5% nel 2012, si è infatti dimezzata nel 2013; da novembre a marzo essa è ulteriormente diminuita, passando dallo 0,9% allo 0,5%. Sebbene le prospettive di medio periodo rimangano ancorate al 2%, le previsioni indicano che solo nel 2016 la crescita dei prezzi raggiungerà valori ‘‘inferiori ma vicini’’ all’obiettivo di lungo termine del 2%.

Le prospettive di ripresa economica sono oltretutto ostacolate dalla moneta unica, troppo forte rispetto ai principali concorrenti internazionali. Negli ultimi 12 mesi, l’euro si è apprezzato del 5,3% rispetto ai 20 principali partner commerciali dell’eurozona: gli aumenti maggiori hanno riguardato il tasso di cambio nominale tra euro e renminbi, dollaro statunitense e yen (quest’ultimo deprezzatosi in termini relativi di oltre il 19%) (BCE, 2014a; BCE, 2014b).

Queste considerazioni, unite ai punti critici illustrati nel precedente paragrafo, potrebbero aprire la strada a nuove misure non convenzionali. Il ventaglio delle opzioni a disposizione della BCE comprende:

a) Tassi di interesse negativi. I tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale sono state recentemente confermate allo 0,25%, 0,75% e 0,00%. La strada dei tassi di interesse negativi, seguendo l’esempio danese in cui i tassi di interesse sui depositi sono negativi dalla metà del 2012, per molti analisti non porterebbe a benefici rilevanti, non riuscendo ad incidere sulle politiche creditizie in modo efficace(Banca di Danimarca, 2012 e 2013).

b) Iniezione di liquidità. Un’ulteriore tornata di LTRO potrebbe non essere la medicina giusta visto che gli istituti bancari stanno restituendo i precedenti prestiti.

c) Funding for lending. La BCE potrebbe valutare di seguire l’esperienza inglese del funding for lending, ove i prestiti della banca centrale vengono concessi agli intermediari creditizi a tassi più favorevoli se accompagnati da un aumento degli impieghi nei confronti di famiglie e imprese (Churm et al., 2012).

d) Quantitative easing. La BCE potrebbe sperimentare il programma di quantitative easing (QE) praticato assiduamente dalla FED negli ultimi anni con l’acquisto di titoli. Aperture verso questa ipotesi sono giunte da alcuni componenti del board della BCE, così come dei segni di disgelo sono giunti recentemente dalla Bundesbank, che si è detta favorevole alla mancata sterilizzazione dei 175 miliardi di euro di titoli di Stato di paesi dell’area euro acquistati dalla BCE nell’ambito del SMP. La discussione circa l’attuazione di un programma di QE da parte della BCE riguarda i criteri di ripartizione degli acquisti tra i diversi stati membri dell’area euro, onde evitare che alcuni paesi possano trarre un vantaggio superiore a quello di altri. Una delle ipotesi più accreditate è quella dell’acquisto di titoli sovrani in proporzione alle quote di capitale della BCE detenute dai vari paesi dell’area.

5) Cartolarizzazioni. Un’altra ipotesi caldeggiata è l’estensione dei tipi di cartolarizzazioni che la BCE potrebbe accettare come collaterale. Tale decisione faciliterebbe ulteriormente l’afflusso di liquidità dalla banca centrale alle banche, nella speranza che la stessa venga poi trasmessa all’economia reale. Il mercato europeo delle cartolarizzazioni sembra però di dimensioni troppo limitate affinché una tale decisione abbia effetti concreti.

 Torneremo a breve con un’analisi delle diverse misure che sono sul tavolo della BCE.

BIBLIOGRAFIA

 

Requisiti patrimoniali delle banche: la BCBS ha posto regole per il controllo e la misurazione dei fidi bancari

Apr 16 2014

La BCBS ha, oggi, individuato regole per il controllo e la misurazione dei fidi bancari. In particolare viene previsto un limite generale applicato a tutti i fidi concessi dalle banche, qualsiasi sia la controparte, fissato al 25% del Tiar 1. Limiti più stringenti si applicano ai fidi concessi tra banche considerate di rilevanza sistemica (G-SIBs). Questo limite è stato fissato al 15% del Tiar 1.

Le nuove regole si applicheranno a partire dal 1 gennaio 2019

 

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Comunicato Stampa 

Final Standard

La padella ustiona meno della brace. Perché l’Italia non deve uscire dall’euro.
di Marcello Messori

Apr 11 2014
La padella ustiona meno della brace. Perché l’Italia non deve uscire dall’euro. <small><small><I> di Marcello Messori </I></small></small>

1. Introduzione 

I vantaggi e gli svantaggi, che l’economia italiana e quella di altri Stati membri ‘periferici’ otterrebbero se uscissero dall’area dell’euro, non sono simmetrici a quelli derivanti da una loro permanenza in quest’area. Le ragioni della asimmetria sono, almeno, due. Primo: l’opting out, che è stato utilizzato nel 1998 dal Regno Unito e dalla Danimarca al momento della creazione della  moneta unica, non è utilizzabile dai Paesi periferici dell’Unione economica e monetaria europea (UEM) se non mediante un’improbabile revisione dei Trattati. Secondo: l’uscita da un’area monetaria richiede comunque di gestire gli stock accumulati e denominati in quella moneta; tale problema, definibile come legacy, non si sarebbe posto con un opting out iniziale.

In quanto segue, parto da un’ipotesi apparentemente accademica: l’abbandono definitivo dell’UEM e, di conseguenza, dell’Unione europea (UE) da parte di uno Stato membro. Gli effetti di una simile scelta sono interessanti perché prefigurano l’esito, a cui portano anche scenari più realistici. In particolare, essi si applicano al caso dell’uscita temporanea di un Paese periferico che miri ad attuare un periodo di aggiustamento. La mia analisi è specificamente dedicata all’Italia; e la mia conclusione è che, se decidesse di uscire temporaneamente dalla ‘padella’ della moneta unica, questo Paese sarebbe condannato alle fiamme del sesto cerchio dell’inferno dantesco. Ciò non equivale a sostenere che l’attuale configurazione dell’UEM rispecchi il migliore dei mondi possibili. Le critiche, che possono essere mosse alle scelte europee, non mettono però in discussione la permanenza dell’Italia (e degli altri Paesi periferici) nell’area dell’euro.

2. Uscire dall’UEM, uscire dall’UE

A normativa data, l’uscita dall’UEM comporta l’uscita dalla UE. Pertanto, per uno Stato membro, gli svantaggi di un abbandono unilaterale dell’area dell’euro sarebbero massicci. La conseguente uscita dall’UE porterebbe all’espulsione dal mercato unico e dagli altri patti di cooperazione. Per di più, i membri della UE non accetterebbero di siglare con lo Stato transfuga (d’ora in poi, indicato come T) accordi simili a quelli che legano la UE a molti altri Paesi europei ed extra-europei (per es., Paesi in via di sviluppo) e che sfuggono all’obbligo WTO  di applicare a tutti la clausola delle condizioni migliori. Di conseguenza, T sarebbe condannato alla svalutazione della propria moneta e, poi, al protezionismo; e, in un mondo di mercati integrati, esso sarebbe cancellato dal novero delle economie avanzate.

Poiché né il suo governo né gran parte delle sue imprese private sarebbero in grado di far fronte ai loro debiti in euro mediante gli incassi espressi nella nuova e svalutata moneta nazionale, T dovrebbe dichiararsi insolvente nei mercati internazionali; il che lo escluderebbe, per un periodo di tempo non breve, dalle transazioni monetarie non coperte da adeguati flussi ‘reali’ di beni e servizi. In tale situazione, è altamente probabile che le imprese di T con proiezione internazionale e senza posizioni interne di rendita sarebbero spinte a trasferire il loro quartier generale all’estero; e molte piccolo-medie e medie imprese verrebbero espulse dalle catene internazionali del valore. Tutto ciò innescherebbe pressioni per l’aumento della spesa pubblica (maggiori trasferimenti alle imprese e rafforzamento delle protezioni sociali) e rialzi nei tassi di interesse sulle varie forme di debito, cosicché quote crescenti del debito pubblico e di quello privato andrebbero ‘monetizzate’ mediante la subordinazione della banca centrale agli obiettivi politici. Ne deriverebbero gravi difficoltà finanziarie per le famiglie con mutui e un impoverimento degli aggregati sociali a reddito fisso.

3. Uscire per un po’ dall’UEM

 Il precedente quadro rappresenta una ‘soluzione’ estrema, che non sembra adattarsi al caso italiano. Si supponga perciò, più realisticamente, che l’Italia concordi con gli altri Stati membri dell’UEM un periodo limitato fuori dall’euro (ossia l’adozione temporanea dell’euro-lira), con l’impegno a rientrare una volta effettuati gli aggiustamenti ‘reali’ e monetari necessari al ripristino della sua competitività. Il costo maggiore di una simile opzione sarebbe dato dalla gestione dei debiti contratti in euro  (legacy), in quanto l’aggiustamento monetario si baserebbe su una forte e ripetuta svalutazione dell’euro-lira rispetto all’euro.

Innanzitutto, vi sarebbe il problema di gestire il debito nei confronti degli intermediari e dei risparmiatori esteri o estero-vestiti che detengono titoli del debito pubblico italiano. Anche se questa percentuale è oggi minore di quella raggiunta negli anni precedenti la crisi europea dei debiti sovrani, si tratta ancora di una cifra ingente e in aumento. Lo Stato italiano dovrebbe far fronte ai suoi impegni debitori, corrispondendo gli interessi e liquidando il debito alla scadenza, mediante la conversione in euro di un’euro-lira in rapida svalutazione. Lo Stato italiano dovrebbe inoltre gestire l’inevitabile contenzioso rispetto ai cittadini e alle società (finanziarie e non finanziarie) italiane che, detenendo vecchi titoli del debito pubblico denominati in euro e non in euro-lire, chiederebbero il rispetto del contratto originario di debito.

Un problema analogo si applicherebbe anche ai gruppi bancari italiani. E’ noto che, specie fra la fine degli anni Novanta e il 2007 ma persino nell’ultimo periodo di forte credit crunch, il settore bancario italiano ha dovuto sopportare uno strutturale funding gap – ossia, ha dovuto coprire un divario strutturale fra l’ammontare dei prestiti erogati e la raccolta tradizionale (i depositi bancari).  Dopo la crisi finanziaria internazionale e dopo le difficoltà dell’UEM, anche a causa della positiva evoluzione nella regolamentazione europea dei mercati finanziari (il processo di Unione bancaria), le banche italiane hanno incontrato crescenti difficoltà a emettere obbligazioni non garantite e a basso rendimento. Pertanto, esse hanno maturato una forte posizione debitoria nel mercato internazionale wholesale e nei confronti della Banca centrale europea (BCE). Per giunta, al fine di difendere margini di redditività, esse hanno utilizzato la liquidità a basso costo offerta dalla BCE per acquistare titoli italiani del debito pubblico a più alto rendimento. Ne deriva che, nel caso di uscita temporanea e concordata dell’Italia dall’euro, il nostro settore bancario correrebbe il forte rischio di ottenere gran parte dei propri ricavi in euro-lire e di dover restituire gran parte dei propri debiti in euro. Considerazioni non molto diverse andrebbero ripetute per tutte le imprese non finanziarie che operano nel mercato nazionale ma acquistano una parte significativa dei loro input nei mercati internazionali.

La sola parte dell’economia italiana, che potrebbe trarre vantaggio da una situazione del genere, è quella rappresentata dal nucleo delle nostre imprese non finanziarie che hanno una prevalente presenza nei mercati internazionali e che sono in grado di utilizzare  fornitori nazionali. Tale parte dell’economia italiana vedrebbe, infatti, aumentare la propria competitività di prezzo a livello internazionale. Essa non è però sufficientemente estesa da sostenere la crescita di un sistema economico appesantito dagli altri fattori appena esaminati. Per di più, i vantaggi rischierebbero di essere effimeri.

4. La gestione dei debiti 

Per giustificare l’ultima affermazione, si approfondiscano i problemi di debito dell’altra e più consistente parte dell’economia italiana. L’alternativa è: (a) onorare nella moneta originaria tutti i debiti, contratti almeno con controparti estere, e sobbarcarsi così pesanti e crescenti oneri data la progressiva svalutazione dell’euro-lira; (b) ripudiare i debiti contratti in euro, così da rinegoziarli in termini di euro-lire.

Nello  scenario (a), per fronteggiare i crescenti oneri finanziari per il servizio dei debiti, sia lo Stato italiano che le nostre imprese dovrebbero aumentare i loro incassi monetari grazie al rilancio della domanda aggregata. La prolungata stagnazione attraversata dall’economia italiana fra l’inizio degli anni Duemila e il 2005, le acute fasi di recessione che hanno colpito questa stessa economia fra il 2008 e la fine del 2009 e fra la prima metà del 2011 e la fine del 2013,  la connessa caduta del potere di acquisto delle nostre famiglie hanno però causato una caduta della domanda interna e una situazione di tendenziale deflazione. Il rilancio della domanda interna richiederebbe, pertanto, consistenti aumenti salariali e aumenti della spesa pubblica (in termini di trasferimenti e investimenti). I primi sarebbero per giunta giustificati dagli elevatissimi tassi di inoccupazione, sopportati soprattutto dalle componenti più fragili della popolazione attiva italiana, e dalle difficoltà economico-sociali che una parte crescente delle nostre famiglie hanno dovuto sopportare dal 2008 a oggi  (con drammatici aumenti nei tassi di povertà relativa e con una permanenza di alti livelli di povertà assoluta). Gli aumenti dei salari e della spesa pubblica sarebbero, infine, l’effetto della stessa pressione sociale alla base dell’uscita dall’euro e del preesistente processo di consolidamento del bilancio pubblico.

Gli aumenti salariali spingerebbero, però, le imprese ad aumentare i prezzi con un passaggio brusco da una tendenziale deflazione a un’elevata inflazione; e l’aumento della  spesa pubblica obbligherebbe lo Stato ad aumentare ulteriormente le tasse, a innalzare i tassi di interesse sui titoli del debito per attrarre gli investitori nazionali e internazionali nonostante – rispettivamente – i crescenti “rischi di inflazione” e “rischi di svalutazione” e/o a monetizzare una parte del proprio debito. Il che comporterebbe una brusca interruzione nel contenimento della spesa pubblica.

Si innesterebbe così quel circolo vizioso fra inflazione e svalutazione, quella spinta agli squilibri fiscali fuori controllo e quel rafforzamento delle posizioni di rendita che sono stati tipici della situazione italiana degli anni Settanta e Ottanta. L’aumento dei prezzi interni richiederebbe di riprodurre la competitività di prezzo delle nostre imprese esportatrici nei mercati internazionali mediante accelerazioni della svalutazione dell’euro-lira. Peraltro, la svalutazione aumenterebbe i costi delle importazioni per le imprese e l’alta inflazione minerebbe il potere di acquisto delle famiglie a reddito fisso e/o prive di posizioni protette di rendita. Ne discenderebbe un’ulteriore spinta ai già aumentati trasferimenti pubblici a favore di imprese e famiglie; il che porterebbe la spesa pubblica corrente fuori controllo. Gli squilibri nel bilancio pubblico dell’Italia sarebbero, poi, accresciuti dai crescenti oneri finanziari sui titoli pubblici e dalla necessità di aumentare gli investimenti pubblici.

5. Si può reggere un ritorno agli anni Settanta e Ottanta?  

Il degrado dell’economia italiana rischierebbe di sfociare in vincoli incompatibili con il funzionamento del mercato e con il perseguimento di efficienti assetti istituzionali. Per esempio, potrebbe diventare necessario sottoporre le banche a distorsivi condizionamenti di gestione, quali  obblighi di destinare una quota del loro attivo all’acquisto di titoli pubblici e al finanziamento delle piccolo-medie imprese. Inoltre, potrebbe diventare inevitabile subordinare le decisioni di politica monetaria a scelte politiche, obbligando la  Banca d’Italia ad acquistare quote crescenti del debito pubblico e a  procedere a salvataggi ogni qual volta si concretizzi un rischio di insolvenza per date banche. Di conseguenza, ritorneremmo a un settore bancario ‘pubblicizzato’ che fungerebbe da canale ideale per la commistione fra economia, politica e malaffare, che sfuggirebbe alla vigilanza di una banca centrale assediata e che scaricherebbe le proprie perdite sulla collettività.

Dato il già elevato debito pubblico e l’indebolimento delle istituzioni economiche, che sono un tratto tipico dell’Italia nel dopo crisi, lo scenario sopra descritto non permetterebbe certo di rafforzare la competitività della nostra economia e di disegnare un percorso di rientro nell’UEM con posizioni competitive consolidate. Lo scenario (a), enunciato all’inizio del precedente paragrafo e posto in contrapposizione allo scenario (b), si rivelerebbe una falsa alternativa. Esso condurrebbe, infatti, l’Italia dentro lo scenario (b) che, a sua volta, ci condannerebbe al disastroso destino del Paese T (cfr. par. 2).

Quello che appariva un risultato accademico si trasforma, così, nell’esito più probabile che sarebbe indotto da un’uscita temporanea dell’Italia dalla moneta unica. Non si tratta di una conclusione sorprendente. L’idea di una sospensione dell’appartenenza all’euro equivale, infatti, a proporre un temporaneo isolamento dell’economia italiana dai mercati internazionali. Nell’era dei mercati integrati, il protezionismo isola però dalle innovazioni e recide i legami fra le imprese nazionali  e il resto dell’economia mondiale. Come è possibile pensare che una mossa del genere induca aggiustamenti virtuosi e recuperi di competitività invece che arretratezza e chiusura? L’Italia si troverebbe così fuori dall’euro e in condizioni ancora peggiori rispetto a quelle degli anni Settanta e Ottanta.  Essa finirebbe per cadere in quella situazione di  bancarotta che, pure, aveva cercato di evitare. Sul nostro Paese si allungherebbe lo spettro della sindrome argentina con derive populistiche a livello istituzionale e con un progressivo ma pesante impoverimento della popolazione a livello economico e sociale.

6. Conclusioni

Questa implicazione della precedente analisi esime dallo spiegare ulteriormente perché un’uscita dell’Italia e di altri Paesi periferici dall’euro non sia affatto conveniente: i vantaggi di breve termine, riconducibili a un’accresciuta competitività di prezzo per il nucleo di imprese esportatrici, sono chiaramente sovrastati dagli svantaggi di medio e lungo termine che chiamano in causa la stessa tenuta sociale e istituzionale del sistema nazionale.

Dobbiamo allora rassegnarsi all’Europa così come è? Il capitolo dei vantaggi e degli svantaggi, che l’Italia e altri Paesi periferici possono ottenere dalla loro permanenza nell’euro, resta da scrivere e richiede un’analisi delle necessarie trasformazioni delle istituzioni e dei meccanismi  europei.

E’ evidente che la priorità dell’economia italiana (così come quella di gran parte degli altri Paesi periferici dell’UEM) è il riavvio della crescita; ed è altrettanto evidente che, nel breve periodo, tale riavvio necessita di un rilancio della domanda aggregata a livello sia europeo che nazionale perché bisogna invertire l’inerzia negativa ereditata da una lunga e profonda recessione. Il ciclo economico europeo, la ripresa della domanda interna in alcuni Stati membri ‘centrali’ e le iniziative di molti governi dei Paesi periferici stanno aprendo opportunità al riguardo. Perché queste fragili prospettive di crescita di breve termine diventino robuste consolidandosi in una crescita di medio periodo, è però necessario che l’Italia e gli altri Paesi periferici dell’UEM recuperino una competitività non fondata sulla mera compressione salariale (ossia su una concorrenza senza prospettive nei confronti dei Paesi emergenti). Si tratta di realizzare quelle riforme per la competitività che riguardano sia il miglioramento dell’ambiente istituzionale sia il ridisegno degli incentivi (non necessariamente pecuniari) per la riorganizzazione innovativa delle imprese. Tali riforme si basano su interventi microeconomici che andrebbero realizzati, anche se il contesto europeo fosse di espansione, e che potrebbero sostanziarsi nel cosiddetto ‘partenariato per la crescita’ (i vecchi contractual arrangement).

BCE: pubblicato bollettino mensile di aprile

Apr 10 2014

La Banca Centrale Europea ha pubblicato oggi il bollettino mensile di aprile. L’inflazione dovrebbe aumentare leggermente ad aprile, dopo la frenata di marzo; le prospettive di lungo termine restano ancorate al 2% (Draghi non ha però escluso la possibilità di attuare politiche monetarie non convenzionali). Primi, deboli, segnali di miglioramento per il mercato del lavoro nell’ultimo trimestre del 2013 e per i consumi, sospinti dai consumi interni.

Bollettino mensile.

Asset quality review e stress tests. Cosa ci aspetta?
di Emilio Barucci, Stefano Corsaro e Carlo Milani

Apr 10 2014
Asset quality review e stress tests. Cosa ci aspetta? <small><small><I> di Emilio Barucci, Stefano Corsaro e Carlo Milani </I></small></small>

Executive summary

In vista del kick off della Vigilanza Unica, la BCE ha promosso l’asset quality review, che ha l’obiettivo di valutare la solidità dei bilanci degli istituti che cadranno sotto il suo ombrello, l’EBA ha invece promosso gli stress test, che hanno l’obiettivo di valutare la solidità degli intermediari rispetto a condizioni di stress. In queste pagine cerchiamo di fare luce sulle condizioni delle banche italiane e sugli aspetti critici che si annidano dietro a queste analisi.

1.     Asset quality review e stress tests: stato dell’arte

Come passo preliminare verso la costruzione di un sistema di vigilanza unico sugli intermediari creditizi, la BCE ha promosso l’Asset Quality Review (AQR) con l’obiettivo di valutare la solidità e la qualità dei bilanci bancari e di aumentarne la trasparenza. Gli Stress Tests (ST), promossi dall’EBA, hanno invece l’obiettivo di valutare la solidità degli intermediari rispetto a condizioni di stress che riproducono una situazione di crisi economica e/o finanziaria.

L’AQR, necessario prerequisito per gli ST, è in pieno svolgimento. La collezione dei dati necessari per analizzare i portafogli delle 128 banche sottoposte a revisione è in via di completamento; le autorità nazionali competenti hanno creato le strutture adibite al controllo e alla consegna alla BCE dei risultati. La raccolta di informazioni interessa tutte le categorie di esposizioni nei confronti di privati (grandi aziende, piccole e medie imprese, mutui al dettaglio, altre esposizioni al dettaglio e altre esposizioni immobiliari) e prevede la divulgazione di dati concernenti tutti i contratti, le garanzie fornite, sia finanziarie che reali, e i garanti. Un team della BCE e delle singole Banche Centrali nazionali sta effettuando ispezioni per verificare la veridicità e l’omogeneità delle informazioni fornite, seguendo una tabella di marcia prestabilita (ECB, 2014c). I risultati dell’AQR saranno resi noti ad ottobre, in tempo per l’entrata in vigore della vigilanza unica bancaria in capo alla BCE. L’AQR non dovrebbe essere una verifica isolata, anche in futuro la BCE potrà revisionare i portafogli delle banche.

Uno dei punti critici nell’esercizio dell’AQR è rappresentato dalla valutazione dei crediti deteriorati. Al riguardo l’Autorità Bancaria Europea (EBA) ha definito standard uniformi per la classificazione dei non-performing loans (NPL), ovvero le esposizioni creditizie su cui risultano mancati pagamenti da almeno 90 giorni (EBA 2013). Vale la pena di osservare che la definizione di NPL stabilita dall’EBA era di fatto già in vigore nel panorama italiano. Oltre ai crediti deteriorati, anche i titoli pubblici e altri asset appartenenti a diverse categorie e rischio saranno valutati; tra essi, le attività illiquide di livello 3. Gli ispettori potranno ricalcolarne il valore e analizzare i modelli utilizzati per la valutazione.

Parallelamente allo svolgimento dell’AQR, è in corso la definizione degli scenari degli ST. Il passaggio è di fondamentale importanza per la credibilità dell’esercizio evitando che vengano definiti scenari troppo “morbidi”, come quelli identificati nel 2011, che non furono capaci di rappresentare l’andamento delle variabili che si è poi avverato. La precedente tornata di ST destò perplessità anche per il livello di guardia del Core Tier 1, fissato al 5%, che venne giudicato come troppo basso da parte dei mercati. Il risultato fu che solo otto banche non raggiunsero il livello minimo richiesto e il gap di capitale si fermò a 2,5 miliardi di euro (EBA, 2011a; EBA, 2011b).

Gli ST che avranno luogo quest’anno appaiono essere più completi e rigorosi. Il numero di banche che saranno sottoposte a scrutino, 124 con base in 22 paesi, è maggiore rispetto al campione coperto nei test del 2011; tali banche rappresentano almeno la metà del sistema bancario di ogni stato membro. Il test coprirà un periodo di tre anni, tra il 2014 e il 2016. L’analisi ipotizzerà un bilancio statico, ovvero senza considerare azioni già pianificate nei piani industriali ma ancora non attuate e considerando l’attuale modello di business della banca. L’impatto verrà valutato in termini di Common Equity Tier1 (CET1): il CET1 ratio (rispetto alle attività ponderate per il rischio) degli istituti finanziari dovrà essere superiore all’8% nello scenario base e al 5,5% nello scenario avverso. I livelli minimi di capitale al di sotto dei quali le banche non potranno scendere sono più alti rispetto al 2011: in quella occasione, la soglia calcolata in termini di Core Tier1 era del 5%. Quest’anno invece  le soglie sono dell’8 e del 5,5% e sono parametrati rispetto al CET1, la parte di capitale di miglior qualità che comprende azioni ordinarie e utili non distribuiti. La stessa normativa di Basilea 3 è meno rigida nell’imporre requisiti di capitale agli istituti bancari: essa prevede infatti che il CET1 ratio sia pari ad almeno il 4,5% delle attività ponderate per il rischio (EBA, 2011c; EBA 2014b; Comitato di Basilea, 2011).

I test del 2011 prevedevano un peggioramento delle variabili macroeconomiche (PIL, disoccupazione), una diminuzione della domanda estera e un deprezzamento del dollaro statunitense rispetto all’euro e alle altre valute europee; molto probabilmente tali fattori di stress verranno almeno in parte riconfermati. Le banche saranno chiamate a confrontarsi con i medesimi scenari macroeconomici, potrebbero essere chiamate anche a confrontarsi con shocks specifici per i mercati dove sono chiamate ad operare. Sia il trading che il banking book saranno oggetto degli ST, le banche dovranno stressare il seguente insieme di rischi: rischio di credito, rischio di mercato, sovereign risk, securitisation, cost di funding, rischio operativo. Il focus degli ST sarà sul rischio di mercato e sul rischio di credito.

Se l’AQR e l’applicazione di scenari di stress faranno emergere delle deficienze di liquidità, gli istituti bancari dovranno procedere a rafforzamenti di capitale. Se il deficit si verificherà nello scenario base, l’aumento di capitale dovrà avvenire nel più breve termine possibile. Nello scenario avverso, invece, gli istituti avranno un tempo più esteso per incrementare i propri cuscinetti patrimoniali, agendo ad esempio sulle politiche di distribuzione dei dividendi e su quelle per il contenimento dei costi (EBA, 2011d; EBA, 2014a; EBA 2014b; ECB, 2014a).

 2.     Lo stato delle banche italiane

A livello di sistema le principali banche italiane si presentano all’appuntamento degli ST con un buon livello di patrimonializzazione, che risulta comunque essere inferiore rispetto alle banche europee. Le banche italiane presentano una forte dispersione, con elementi di debolezza soprattutto riguardo alle banche medio-grandi.

Il Core Tier 1 ratio (ratio presente nella normativa di Basilea 2 corrispondente al CET1 ratio di Basilea 3) delle principali banche nostrane, a settembre o dicembre 2013, si situa tra il 7,25% di Popolare Milano e il 14,03% di Iccrea. Unicredit, Intesa San Paolo e Mediobanca si collocano poco sotto il 12%, vedi Figura 1. Il total capital ratio è inferiore al 10% solo per Banca Carige e Veneto Banca ed è superiore al 15% per tutti gli istituti di maggiore dimensione. Come termine di paragone, si consideri che il CET1 ratio e il total capital ratio delle principali banche europee, calcolato supponendo la piena applicazione delle norme di Basilea 3, è attualmente all’11,9% e 16% per le banche del Gruppo 1 (grande dimensione), al 12,4 e al 15,8% per le banche del Gruppo 2 (media-grande dimensione) (Barucci e Corsaro, 2014).

Figura 1 Ratio patrimoniale delle banche italiane ed europei

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Le banche italiane nel complesso si presentano dunque con ratio patrimoniali più bassi rispetto alle banche europee di simile dimensione, il fenomeno è significativo soprattutto per le banche di media-grande dimensione mentre le prime sei banche presentano un gap non molto significativo soprattutto in termini di Core Tier 1. Negli ultimi anni le banche italiane hanno considerevolmente diminuito la distanza rispetto al benchmark europeo: il gap è stato colmato tramite un aumento del 7,3% del patrimonio core e una diminuzione dell’8,4% delle attività ponderate per il rischio (dati riferiti al periodo dicembre 2011 – giugno 2013: Torresetti, 2014). Tutti i principali istituti finanziari nostrani hanno agito con decisione sui risk-weighted assets, attuando politiche di deleveraging e derisking.

Figura 2 Sofferenze nel sistema bancario italiano

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Le banche italiane hanno anche aumentato i tassi di copertura per i crediti in sofferenza e deteriorati. La copertura delle sofferenze è, con poche eccezioni, superiore al 50%, Intesa, Unicredit e Mps si situano attorno al 60%; i tassi di copertura dei crediti deteriorati (che includono sofferenze, incagli, ristrutturati, scaduti) presentano invece una maggiore dispersione, con valori pari o inferiori al 30% per Carige, Banco Popolare e Ubi Banca e superiori al 50% per Unicredit e Iccrea. Il livello di copertura dei crediti deteriorati per le prime cinque banche (70% dei crediti) è superiore rispetto al dato di sistema, Banca d’Italia (2013). Il tasso di copertura delle banche italiane è inferiore a quello delle banche europee ma il dato è difficilmente comparabile per il diverso criterio di classificazione: se si escludono i crediti assistiti da garanzie (come viene fatto in molte realtà europee) le banche italiane risultano avere coefficienti di copertura superiori a quelle europee.

La quantità di derivati e di assets di livello 3 delle nostre banche è pari a circa la metà degli altri paesi europei, confermando la minor propensione degli istituti nazionali nei confronti di attività rischiose. Anche in questo caso si nota una elevata dispersione guardando al dato sulla percentuale degli attivi con alcune punte per gli istituti di media-grande dimensione.

Quanto all’esposizione nei confronti di titoli di Stato, le banche oggetto di vigilanza da parte della BCE rappresentano circa il 60% dell’esposizione complessiva del sistema bancario italiano nei confronti dello Stato italiano (396 miliardi a giugno 2013). Le prime cinque banche rappresentano il 50%. I titoli pubblici rappresentano in media il 10% degli attivi bancari, dal dicembre 2011 al settembre 2013 le banche italiane hanno acquistato 150 miliardi di titoli di stato, che in larga misura sono stati contabilizzati nel banking book come available for sale (Banca d’Italia 2013).

Figura 3 Titoli di stato e derivati in portafoglio alle banche italiane

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  3.      I punti critici

Gli ST che si prospettano presentano più di un punto critico. In primo luogo, le soglie da rispettare sono state oggetto di critica, in quanto giudicate ancora troppo basse al fine di individuare le banche che sono effettivamente sottocapitalizzate.

Un altro punto debole della nuova stagione degli ST concerne il trattamento dei titoli di Stato. Le esposizioni in titoli pubblici degli istituti di credito verranno valutate a seconda della finalità per cui i titoli sono detenuti dalle banche. Se, negli ST del 2011, i titoli detenuti per attività di trading (held for trading), circa il 5% del totale, furono i soli ad essere sottoposti allo scenario di stress, quest’anno la valutazione comprenderà anche i bond detenuti nel banking book per la vendita (available for sale) e quelli mantenuti sino a scadenza (held to maturity). Per questi ultimi verrà valutato il rischio controparte che potrà richiedere accantonamenti ad hoc. I titoli detenuti per la vendita o per attività di trading saranno invece valutati al fair value, per cui le relative posizione saranno sottoposte a stress riguardo al rischio di mercato (EBA, 2014c). Ne consegue che buona parte dei titoli di Stato acquistati negli ultimi anni da parte delle banche italiane sarà sottoposta a stress.

Le posizioni in titoli di Stato saranno considerate negli ST, ma non nell’AQR. Revisionare la qualità degli attivi delle banche comprendendo anche i titoli di Stato avrebbe certamente reso la valutazione più completa; ciò è vero in particolar modo a seguito degli acquisti di titoli governativi da parte delle banche europee con i fondi delle LTRO.

L’analisi del rischio debito sovrano è resa problematica anche dal fatto che la distinzione tra titoli inseriti nel trading book e nel banking book, prevista dalla normativa di Basilea 2.5, non prevede paletti ben definiti, lasciando margini significativi alle banche nel decidere se allocare i titoli di Stato tra quelli che saranno detenuti fino a scadenza oppure tra quelli destinati alla contrattazione nel mercato. Ad esempio, l’attuale regolamentazione non richiede agli istituti di credito di dimostrare che essi hanno la possibilità di detenere i titoli fino alla loro naturale scadenza, senza che esigenze di gestione (quali ad esempio il rimborso di proprie emissioni obbligazionarie) li inducano a dismettere prima del tempo questi titoli.

Problemi potrebbero sorgere, infine, dalla mancata armonizzazione dei princìpi contabili. I princìpi IFRS non saranno uniformemente applicati a livello di supervisione europea se le definizioni di crediti deteriorati applicate non saranno in contrasto con le linee guida dell’EBA richiamate in precedenza. Tale discrezionalità potrebbe andare a discapito delle banche italiane, in cui viene applicata una valutazione più severa di quella compiuta dalle banche tedesche o francesi; queste ultime potrebbero quindi avere maggiori margini di manovra nel determinare il valore dei crediti dubbi iscritti in bilancio.

  4.      Prime evidenze

Acharya e Steffen (2014) hanno analizzato la situazione patrimoniale e creditizia delle principali banche europee sottoposte all’AQR, utilizzando sia dati di bilancio relativi a giugno 2013 (o in alcuni casi a dicembre 2012), sia alcuni ratio di mercato (market-to-book ratio, beta, ecc.). Da queste prime evidenze, sulla base di ipotesi abbastanza semplici, emergerebbe nello scenario base, ovvero con il vincolo di detenere un CET1 pari almeno all’8%, un deficit di capitale compreso tra i 7,5 e i 67 miliardi di euro per l’intero gruppo delle banche considerate. In uno degli scenari avversi, gli autori ipotizzano la totale svalutazione dei non-performing loans detenuti dalle banche: in tal caso, il deficit di capitale sarebbe compreso tra i 232 e i 435 miliardi di euro, di cui intorno ai 100 miliardi per le sole banche italiane. Le prime evidenze mostrano che in condizioni di stress i principali deficit di capitale, sia in termini assoluti che relativi al PIL, riguardino le banche francesi, seguite dalle banche tedesche e da quelle italiane e spagnole. L’analisi centrata sul valore di mercato delle banche (ovvero compiuta valutando il massimo ammontare di capitale che le banche possono ottenere sui mercati privati in rapporto all’attuale valutazione di mercato) individua invece nelle banche belghe, cipriote e greche quelle più in difficoltà nel compiere i necessari aumenti di capitale.

Soffermandosi sui risultati ottenuti, Acharya e Steffen (2014) evidenziano come la maggior parte dei deficit di capitale possano essere sanati tramite l’emissione di common equity e attraverso haircut sui debitori subordinati (cosiddetto bail-in; Brescia Morra e Mele, 2014a). Ove ciò non sia possibile, ad esempio in quanto i debitori sono altre banche o istituzioni finanziarie di importanza sistemica, potrebbe essere richiesto un sostegno pubblico. Il fondo di risoluzione comune di 55 miliardi di euro, su cui i ministri delle finanze dei paesi europei hanno trovato di recente un accordo non sarebbe sufficientemente capiente (Brescia Morra, Mele, 2014b). Al riguardo occorre comunque ricordare che secondo le ultime analisi dell’EBA le banche, soprattutto quelle di grande dimensione, hanno fatto un notevole sforzo per aumentare il loro grado di capitalizzazione (Barucci e Corsaro, 2014).

I problemi sin qui evidenziati rendono chiaro come le nubi che si erano addensate sugli ST del 2011 non si siano del tutto diradate. Mancata armonizzazione dei principi contabili, valutazione benevola del possesso di bond governativi, soglie minime troppo basse: questi e altri problemi rischiano di rendere l’analisi degli ST non convincente agli occhi dei mercati. A favore dell’autorevolezza degli ST abbiamo comunque la volontà delle autorità di fare sul serio. Le parole di Draghi e del nuovo supervisore capo del meccanismo unico di supervisione, Danièle Nouy, sono state inequivocabili: entrambi ritengono che il fallimento dei test da parte di alcune istituzioni finanziarie sia “necessario” al fine di mostrare la credibilità dei controlli sulla salute delle principali banche europee. Nouy ha inoltre evidenziato come, a differenza del passato, i titoli sovrani non possano più essere considerati asset privi di rischio e ha sottolineato l’attenzione anche nei confronti delle banche che non ricadranno direttamente sotto la sua supervisione; tali banche, se la situazione lo necessitasse, potrebbero infatti essere trasferite sotto la competenza della BCE.

Riferimenti

Implementazione delle norme di Basilea: stato dell’arte

Apr 09 2014

Il Comitato di Basilea ha pubblicato un report sull’implementazione delle normative di Basilea 2, 2.5 e 3, con dati aggiornati a marzo 2014. L’attenzione è stata posta sui processi dei singoli stati per accogliere le norme sugli standard di capitale negli ordinamenti nazionali.

Per ulteriori informazioni, leggere qui.